GIUSTI-

GIUSTI

Giuseppe Giusti

 

Biografia


 

LO STIVALE     GINGILLINO     SANT'AMBOGIO


LO STIVALE  
d i Giusti[1836]

Io non son della solita vacchetta,
né sono uno stival da contadino;
e se pajo tagliato coll'accetta,
chi lavorò non era un ciabattino:
mi fece a doppie suola e alla scudiera,
e per servir da bosco e da riviera.

Dalla coscia giù giù sino al tallone
sempre all'umido sto senza marcire;
son buono a caccia e per menar di sprone,
e molti ciuchi ve lo posson dire:
tacconato di solida impuntura,
ho l'orlo in cima, e in mezzo la costura.

ma l'infilarmi poi non è sì facile,
né portar mi potrebbe ogni arfasatto;
anzi affatico e stroppio un piede gracile,
e alla gamba dei più son disadatto;
portarmi molto non potè nessuno,
m'hanno sempre portato a un po' per uno.

Io qui non vi farò la litania
di quei che fur di me desiderosi;
ma così qua e là per bizzarria
ne citerò soltanto i più famosi,
narrando come fui messo a soqquadro,
e poi come passai di ladro in ladro.

Parrà cosa incredibile: una volta,
non so come, da me presi il galoppo,
e corsi tutto il mondo a briglia sciolta;
ma camminar volendo un poco troppo,
l'equilibrio perduto, il proprio peso
in terra mi portò lungo e disteso.

Allora vi successe un parapiglia;
e gente d'ogni risma e d'ogni conio
pioveano di lontan le mille miglia,
per consiglio d'un Prete o del Demonio:
chi mi prese al gambale e chi alla fiocca,
gridandosi tra lor: bazza a chi tocca.

Volle il Prete, a dispetto della fede,
calzarmi coll'ajuto e da sé solo;

poi sentì che non fui fatto al suo piede,
e allora qua e là mi dette a nolo:
ora alle mani del primo occupante
mi lascia, e per lo più fa da tirante.

Tacca col Prete a picca e le calcagna
volea piantarci un bravazzon tedesco,
ma più volte scappare in Alemagna
lo vidi sul caval di San Francesco:
in seguito tornò; ci s'è spedato,
ma tutto fin a qui non m'ha infilato.

Per un secolo e più rimasto vuoto,
cinsi la gamba a un semplice mercante;
mi riunse costui, mi tenne in moto,
e seco mi portò fino in Levante, -
ruvido sì, ma non mancava un ette,
e di chiodi ferrato e di bullette.

Il mercante arricchì, credé decoro
darmi un po' più di garbo e d'apparenza:
ebbi  lo sprone, ebbi la nappa d'oro,
ma un tanto scapitai di consistenza;
e gira gira, veggo in conclusione
che le prime bullette eran più buone.

In me non si vedea grinza né spacco,
quando giù di ponente un birichino
e a una galera mi saltò sul tacco,
e si provò a ficcare anco il zampino;
ma largo largo non vi stette mai,
anzi un giorno a Palermo lo stroppiai.

Fra gli altri dilettanti oltramontani,
per infilarmi un certo re di picche
ci si messe co' piedi e colle mani;
ma poi rimase lì come berlicche,
quando un cappon, geloso del pollajo,
gli minacciò di fare il campanajo.

Da bottega a compir la mia rovina
saltò fuori in quel tempo, o giù di lì,
un certo professor di medicina,
che per camparmi sulla buccia, ordì
una tela di cabale e d'inganni
che fu tessuta poi per trecent'anni.

Mi lisciò, mi coprì di bagattelle,
e a forza d'ammollienti e d'impostura
tanto raspò, che mi strappò la pelle;
e chi dopo di lui mi prese in cura,
mi concia tuttavia colla ricetta
di quella scuola iniqua e maledetta.

Ballottato così di mano in mano,
da una fitta d'arpìe preso di mira,
ebbi a soffrire un Gallo e un Catalano
che si messero a fare a tira tira:
alfin fu Don Chisciotte il fortunato,
ma gli rimasi rotto e sbertucciato.

Chi m'ha veduto in piede a lui, mi dice
che lo Spagnolo mi portò malissimo:
m'insafardò di morchia e di vernice ,
chiarissimo fui detto ed illustrissimo;
ma di sottecche adoperò la lima,
e mi lasciò più sbrendoli di prima.

A mezza gamba, di color vermiglio,
per segno di grandezza e per memoria,
m'era rimasto solamente un Giglio:
ma un Papa mulo, il Diavol l'abbia in gloria,
ai Barbari lo diè, con questo patto
di farne una corona a un suo mulatto.

Da quel momento, ognuno in santa pace
la lesina menando e la tanaglia,
cascai dalla padella nella brace:
viceré, birri, e simile canaglia
mi fecero angherie di nuova idea,
et diviserunt vestimenta, mea.

Così passato d'una in altra zampa
d'animalacci zotici e sversati,
venne a mancare in me la vecchia stampa
di quei piedi diritti e ben piantati,
co' quali, senza andar mai di traverso,
il gran giro compiei dell'universo.

Oh povero stivale! ora confesso
che m'ha gabbato questa matta idea:
quand'era tempo d'andar da me stesso,
colle gambe degli altri andar volea;
ed oltre a ciò, la smania inopportuna
di mutar piede per mutar fortuna.

Lo sento e lo confesso; e nondimeno
mi trovo così tutto in isconquasso,
che par che sotto mi manchi il terreno
se mi provo ogni tanto a fare un passo;
ché a forza di lasciarmi malmenare,
ho persa l'abitudine d'andare.


 

Ma il più gran male me l'han fatto i Preti,
razza maligna e senza discrezione;
e l'ho con certi grulli di poeti,
che in oggi si son dati al bacchettone:
non c'è Cristo che tenga, i Decretali
vietano ai Preti di portar stivali.

E intanto eccomi qui roso e negletto,
sbrancicato da tutti, e tutto mota;
e qualche gamba da gran tempo aspetto
che mi levi di grinze e che mi scuota;
non tedesca, s'intende, né francese,
ma una gamba vorrei del mio paese.

Una già n'assaggiai d'un certo Sere,
che se non mi faceva il vagabondo,
in me potea vantar di possedere
il più forte stival del Mappamondo:
ah! una nevata in quelle corse strambe
a mezza strada gli gelò le gambe.

Rifatto allora sulle vecchie forme
e riportato allo scorticatojo,
se fui di peso e di valore enorme,
mi resta a mala pena il primo cuojo;
e per tapparmi i buchi nuovi e vecchi
ci vuol altro che spago e piantastecchi.

La spesa è forte, e lunga è la fatica:
bisogna ricucir brano per brano;
ripulir le pillacchere; all'antica
piantar chiodi e bullette, e poi pian piano
ringambalar la polpa ed il tomajo:
ma per pietà badate al calzolaio!

E poi vedete un po': qua son turchino,
là rosso e bianco, e quassù giallo e nero;
insomma a toppe come un arlecchino;
se volete rimettermi davvero,
fatemi, con prudenza e con amore,
tutto d'un pezzo e tutto d'un colore.

Scavizzolate all'ultimo se v'è
un uomo purché sia, fuorché poltrone;
e se quando a costui mi trovo in piè,
si figurasse qualche buon padrone
di far con meco il solito mestiere,
lo piglieremo a calci nel sedere.

                              Giuseppe Giusti
 



 GINGILLINO

Sandro, i nostri Padroni hanno per uso
Di sceglier sempre tra i servi umilissimi
Quanto di porco, d’infimo e d’ottuso
Pullula negli Stati felicissimi:
E poi tremano in corpo e fanno muso
Quando, giunti alle strette, i Serenissimi
Sentono al brontolar della bufera
Che la ciurma è d’impaccio alla galera.

Ciurma sdrajata in vil prosopopea,
Che il suo beato non far nulla ostenta
Gabba il salario e vanta la livrea,
Sempre sfamata e sempre malcontenta.
Dicasterica peste arciplebea,
Che ci rode, ci guasta, ci tormenta
E ci dà della polvere negli occhi,
Grazie a’ governi degli scarabocchi.

Sempre l’uom non volgare e non infame
O scavalcato o inutile si spense,
O presto imbirbonì nel brulicame
Dell’altre arpìe fameliche e melense.
Così sente talor di reo letame
L’erba gradita alle frugali mense,
Così per verme che la fori al piede
Languir la pianta ed intristir si vede.

O Principi Reali e Imperïali,
Gotico seme di grifagni eroi,
Forse accennando ai Lupi commensali
Nelle veci dell’Io stampate il Noi?
Spazzateci di qui questi animali
Parassiti del popolo e di voi,
Questa marmaglia che con vostro smacco
Ruba a man salva, o voi tenete il sacco.

I.

Il Voltafaccia e la Meschinità,
L’Imbroglio, la Viltà, l’Aridità
Ed altre Deità,
Come sarebbe a dir la Gretteria
E la Trappoleria,
Appartenenti a una Mitologia
Che a conto del Governo, a stare in briglia
Doma educando i figli di famiglia,
Cantavano alla culla d’un bambino,
Di nome Gingillino,
La ninna nanna in coro,
Tutta sentenze d’oro
Degnissime del secolo e di loro.

Bimbo, non piangere;
Nascesti trito,
Ma se desideri
Morir vestito,

Ecco la massima
Che mai non falla,
E come un sughero
Ti spinge a galla.

Dagli anni teneri
Piega le cuoja
Al tirocinio
Della pastoja.

Sotto la gramola
Del pedagogo
Curvati, schiacciati,
Rompiti al giogo.

E cogli estranei
E in mezzo ai tuoi,
Annichilandoti
Più che tu puoi.

Non far lo sveglio,
Non far l’ardito;
Se pur desideri
Morir vestito.

Non ti frastornino
La testa e il core
Larve di gloria,
Sogni d’onore.

Fuggi le noje,
Fuggi le some,
Fuggi i pericoli
Di un chiaro nome;

E limitandoti
Senz’altro fumo
A saper leggere
Pel tuo consumo,

Rinnega il genio
Sempre punito;
Se pur desideri
Morir vestito.

Cresci, e rammentati
Che dà nel naso
Più lo sproposito
Commesso a caso,

Che la perfidia
La più fratina,
Tramata in regola
E alla sordina.

Abbi di semplice
Per segno certo
Dell’uomo ingenuo
l’errore aperto,

E imita il sudicio
Che par pulito;
Se pur desideri
Morir vestito.

Studia la cabala
Del non parere,
E gli ammenicoli
Del darla a bere.

Di Dio, del Diavolo
Non farti rete;
Nega il negabile,
Ma liscia il prete.

Un letamajo
Di vizî abborra
Giù de’ precordii
Tra la zavorra;

Ma coram populo
Esci contrito;
Se pur desideri
Morir vestito.

In corpo e in anima
Servi al reale,
E non ti perdere
Nell’ideale.

Se covi smania
Di far fagotto,
Incensa l’idolo
Quattro e quattr’otto.

Sempre la favola
Della ragione
Ceda alla storia
Del francescone;

Sempre lo scrupolo
Muoja fallito;
Se pur desideri
Morir vestito.

Non far che un libero
Sdegno ti dia
Quella poetica
Malinconia,

Per cui non pajono
Vili e modesti
Dei galantuomi
I cenci onesti.

Un gran proverbio,
Caro al Potere,
Dice che l’essere
Sta nell’avere.

Credi l’oracolo
Non mai smentito;
Se pur desideri
Morir vestito.

Vent’anni dopo, un Frate Professore,
Gran Sciupateste d’Università,
Da vero Cicerone Inquisitore,
Encomiava la docilità
E la prudenza di un certo dottore
Fatto di pianta in quel vivajo là,
Dottore in legge, ma di baldacchino,
Che si chiamava appunto Gingillino.

In gravità dell’aurea concione
Messer Fabbricalasino si roga
Capo Arruffacervelli; e un zibaldone
Di Cancellieri e di Bidelli in toga
Gli fa ghirlanda intorno al seggiolone,
E di quell’Ateneo la sinagoga,
Che in lucco nero, a rigor di vocabolo,
Parea di piattoloni un conciliabolo.

Chi brontola, chi tosse o chi sbadiglia,
Chi ride del Dottore e chi del Frate,
Che ansando e declamando a tutta briglia,
Con salti e con rettoriche gambate
Circonda il caro alunno e l’appariglia
Alle celebrità più celebrate,
Calandosi a concluder finalmente
Di dotta carità tutto rovente:

«Vattene, figlio, del bel numer’uno
De’ giovani posati e obbedienti,
Oh vattene digiuno
Di ragazzate, di divertimenti,
Di pipe, di biliardi, d’osterie,
Di barbe lunghe e d’altre porcherie.

O benedetto te, che dalla culla
Se’ stato savio di dentro e di fuori;
Che non hai fatto nulla
Senza il permesso de’ Superiori,
Sempre abbassando la ragione e l’estro,
Sempre pensando a modo del maestro!

Salve, o raro intelletto, o cor leale,
Che d’una fogna d’empi e d’arroganti
Te n’esci tale e quale,
Esci come venisti, e tiri avanti;
Vattene al premio che s’aspetta al giusto,
Della gran soma dottorale onusto.

Comincia coll’esempio e coll’inchiostro
A difender l’altare a destra mano,
Ed a mancina il nostro
Dolce, amorevolissimo Sovrano:
Vattene, agnello pieno di talento,
Caro al presepio e al capo dell’armento.»

All’apostrofe barocca
Che con grande escandescenza
Esalava dalla bocca
Di quel mostro d’eloquenza,
Gingillino andato in gloria
Se n’uscìa gonfio di boria
Dal chiarissimo concilio
Colla zucca in visibilio.

Sulla porta un capannello
D’onestissimi svagati,
Un po’ lesti di cervello
E perciò scomunicati,
Con un piglio scolaresco
Salutandolo in bernesco,
Gli si mosser dietro dietro
Canticchiando in questo metro:

Tibi quoque, tibi quoque
È concessa facoltà
Di potere in jure utroque
Gingillar l’umanità.
La manìa di Sere Imbroglia,
Che nel cranio ti gorgoglia,
Ti rialza fuor di squadro
Il bernoccolo del ladro.

Che ti resta, che ti resta
D’uno sgobbo inconcludente
In quel nocciolo di testa,
Sepoltura della mente?
Ma se l’anima di stoppa
Se n’è tinta per la groppa,
Tanto basta, tanto basta
Per ficcar le mani in pasta.

Infilando la giornea
D’avvocato o di notajo,
Che t’importa la nomea
Se t’accomodi il fornajo?
Tu se’ nato a fare il bracco,
Il giannizzero, il cosacco,
E compensi il capo corto
Coll’andare a collo torto.

O pinzochere fiscale,
Ti si legge chiaro in viso
Che galoppi al Tribunale
Per la via del Paradiso;
E di più c’è stato detto
Che lavori di soffietto,
Devotissimo ab antico
Dell’Apostolo dal fico.

Ma quel Giuda era un buffone,
Un vilissimo figuro:
Tu, vincendo il paragone,
Mostrerai che a muso duro
Si può vendere un Messia,
Senza far la scioccheria
Di morire a gozzo stretto
E di rendere il sacchetto.

II.

Nel mare magno della Capitale,
Ove si cala e s’agita e ribolle
Ogni fiumana e del bene e del male;

Ove flaccidi vizî e virtù frolle
Perdono il colpo nel cor semivivo
Di gente doppia come le cipolle;

Ove in pochi magnanimi sta vivo,
A vitupero d’una razza sfatta,
Il buon volere e il genio primitivo;

E dietro a questi l’infinita tratta
Del bastardume, che di sé fa conio,
E sempre più si mescola e s’imbratta;

Col favor della Musa o del Demonio
Che il crin m’acciuffa e là mi scaraventa,
Entro e mi caccio in mezzo al Pandemonio.

O patria nostra, o fiaccola che spenta
Tanto lume di te lasci, e conforti
Chi nel passato sogna e si tormenta;

Vivo sepolcro a un popolo di morti,
Invano, invano dalle sante mura
Spiri virtù negli animi scontorti.

Quando per dubbio d’un’infreddatura
L’etica folla a notte si rintana,
Le vie nettando della sua lordura;

Quando il patrizio, a stimolar la vana
Cascaggine dell’ozio e della noja,
Si tuffa nella schiuma oltramontana;

E ne’ teatri gioventù squarquoja
E vecchiume rifritto, ostenta a prova
False carni, oro falso e falsa gioja:

Malinconico pazzo che si giova
Del casto amplesso della tua beltade,
Sempre a tutti presente e sempre nova;

Lento s’inoltra per le mute strade
Ove più lunge è il morbo delle genti,
Ed ove l’ombra più romita cade.

Paragona locande e monumenti,
E l’antica larghezza e il viver gretto
Dei posteri mutati in semoventi;

E degli avi di sasso nel cospetto,
Colla mente in tumulto e l’occhio grosso
Di lacrime d’amore e di dispetto;

Gli vien la voglia di stracciarsi addosso
Questi panni ridicoli, che fuore
Mostrano aperto il canchero dell’osso

E la strigliata asinità del core.

Tra i mille ergastoli
Di mille tinte,
Che tutta, in pagine
Chiare e distinte,

Se reggi il vomito,
Ti fan palese
La bassa cronaca
D’un reo paese;

Vince lo stomaco,
Vince l’acume
D’ogni occhio intrepido
Al laidume,

Primo in obbrobrio
Di tanti e tanti,
Il lombricajo
Degli Aspiranti.

Immonda chiovina,
Ove caduto
Del Fôro il fetido
Sterco e il rifiuto,

In sé medesimo
Putre e fermenta,
E immedicabili
Miasmi avventa.

A gran caratteri,
In gran cartello,
Sta sul vestibulo
Scritto: Bargello;

Parola mistica
Che il fiato in bocca
Gela, e significa
Bazza a chi tocca.

Dai Sacri Canoni,
Dalle Pandette,
Passato al codice
Delle manette,

Ringhia lo spirito
Del mio lodato
Nell’abominio
Lì rotolato.

Scorda l’ambrosia
Del tuo Parnaso,
Calza gli zoccoli,
Turati il naso,

Musa, e tenendoti
Su la sottana,
Scendi al motriglio
Dell’empia tana.

Come in imagini
Lerce e falsate,
Nella Tebaide
Al santo Abate

Piovevan le luride
Torme dell’Orco,
Sporcando il trogolo
Perfino al porco;

Per furia idrofoba
Che giù gli mena,
Così nel baratro
Sbocca una piena

D’infami rabule,
Di birri e spie
A mucchi, a vortici,
A litanie.

Ohimè che l’aere
Maligno e tetro
La casta Vergine
Respinge indietro,

La casta Vergine
Ond’io m’adiro,
A cui quell’alito
Mozza il respiro.

Nata alle vivide
Fonti, all’ameno
Rezzo dei lauri,
Al ciel sereno,

Di quella bozzima
Che là s’infogna,
Sente l’ingenua
Schifo e vergogna.

La turpe bolgia
Sdegnando io stesso,
Ove alleluja
Canta il Processo,

Varco allo stabbio
Che aduna a sera
I Birrocratici
Di bassa sfera.

Giace in un vicolo
Sghembo e remoto,
Tra le pozzanghere
D’eterno loto,

Nera casipola
A uscio e tetto,
Che d’una trappola
Ti dà l’aspetto.

Dal bugigattolo
De’ magistrati,
Dal serbatojo
Degli avvocati,

La sozza Frucola,
La vil Tartuca,
La Talpa e il Granchio
Là si trabuca;

Là dai venefici
Rovi del Fisco,
Si striscia l’Aspide
E il Basilisco.

Là, grogiolandosi
Le invidie inermi,
Miste all’ossequio
Degli altri vermi,

Sbuffa e si gloria
L’ozio bracato
Del Tarlo pubblico
Già giubilato.

Là, colle nubili
Sciolte e vistose,
Recan le vedove,
Le mogli annose

De’ commissarii,
De’ gabellotti,
Rigiri, scandali,
Pania e cerotti:

Là per libidini
Di contrabbando
Vanno, e cimentano
Di quando in quando

La lor nullaggine
Che par persona,
Le cariatidi
Della Corona.

Tutto si rumina,
Tutto s’indaga.
Tutti si sgolano
Lì per la paga;

Tutti colorano
Al caso proprio
L’ombre, le nuvole
D’un Motuproprio;

Ogni bazzecola,
Ogni bisbiglio,
Che bolle in pentola
Del Gran Consiglio.

E lì si predica,
Lì si dibatte
La compra e vendita
Delle mignatte

Che i re ci azzeccano
Fitte alle vene,
Per controstimolo
Del troppo bene.

Come del chimico
Nel cavo rame
Si scioglie in glutine
L’accolto ossame,

Così l’intingolo
d’un’altra colla,
Dal gran carnajo
Che là s’affolla,

Tira una Taide,
Che adesso è nonna,
Di quel postribolo
Donna e madonna.

Fu già da giovane
Cuoca e pietanza
D’un Rodipopolo
Su di Finanza,

Che dietro un seguito
D’apoplessie,
d’ire, di scrupoli,
Di trullerie,

In facie Ecclesiae
Tirando innanzi,
Di sé, del pubblico
Biasciò gli avanzi:

Finché, lasciandole
Sgombro il canile,
Col copertojo
Del vedovile,

Fece all’erario
Costar salato
Anco il rimedio
Del suo peccato.

Se al mondo è femmina
Garga e maestra,
Costei del Diavolo
Può stare a destra;

Costei che, a titolo
Di ben servito,
Rosola il Principe
Come il marito.

l’Eccellentissimo
Dottor Gingilla,
Entrato in grazia
Della Sibilla,

Dopo un proemio
D’incensi abietti,
Di basse lacrime,
Di sconci affetti,

Le chiese il bandolo
Che mena al varco,
E schiude i pascoli
Del regio Parco.

A cui l’ex-guattera,
Tirando fuori
Della domestica
Scuola i tesori,

Senza metafora
Tracciò distinto
L’itinerario
Del laberinto.

III.

O merli tarpati
Su su da piccini,
O galli potati
Ad usum Delphini;

O gufi pennuti
Dell’antro di Cacco,
O falchi pasciuti
Del pubblico acciacco;

O nibbi vaganti
Stecchiti di fame,
O corvi anelanti
Al nostro carcame;

Sparvieri, calate,
Calate, avvoltoi;
Pappate, pappate;
Si scanna per voi:

Ma intanto, brigata,
Udite la Strega
Che dà l’imbeccata
Al vostro collega: –

Che bisogna scansare i liberali,
I giovani d’ingegno, i mal veduti;
Non chiacchierar di libri e di giornali,
Come non visti mai né conosciuti;
Chiuder l’animo a tutti e stare a sé,
So di buon luogo che lo sai da te.

Questo appartiene all’arte del non fare,
E in quest’arte sei vecchio e ti conosco;
E sarebbe, il volertela insegnare,
Portar acqua alla fonte e legne al bosco:
Ora all’ingegno tuo bene avviato
Resta l’altra metà del noviziato.

Prima di tutto incurva la persona,
Personifica in te la reverenza;
Insaccati una giubba alla carlona,
E piglia per modello un’Eccellenza:
In questo caso l’abito fa il monaco,
E il muro si conosce dall’intonaco.

Piglia quel su e giù del saliscendi,
Quell’occhio del ti vedo e non ti vedo;
Quel tentennìo, non so se tu m’intendi,
Che dice si e no, credo e non credo;
E piglia quel saper di dolce e forte,
Che s’usa dal Bargel fino alla Corte.

Barba no, ci s’intende: un impiegato,
(Cosa chiara, provata e naturale)
Quanto più serba il muso di castrato,
Tanto più entra in grazia al Principale:
Ma in questo, per piacere a chi conviene,
Anco la mamma t’ha servito bene.

Non lasciar mai la predica e la messa,
E prega sempre Iddio vistosamente;
Vacci nell’ora e nella panca stessa
Del commissario, oppur del presidente;
Anzi, di sentinella alla piletta,
Dagli, quand’entra, l’acqua benedetta.

Fatti introdurre, e vai sera per sera
Da qualche scamonea fatto Ministro;
E là, secondo l’indole e la cera,
Muta strumento e gioca di registro:
Se ti par aria da farci il buffone,
Fallo, e diverti la conversazione;

Se poi si gioca e si sta sulle sue,
Chiappa le carte e fai da comodino.
Perdi alla brava, ingozzati del bue,
Doventa il Papa-Sei del tavolino;
Ché quando t’ha sbertato e pelacchiato,
Ti salda il conto a spese dello Stato.

Fa’ di tenerlo in giorno, e raccapezza
La chiacchiera, la braca, il fattarello;
Tutto ciò che si fa, da Su’ Altezza
(Per così dire) infino a Stenterello.
Sia l’ozio, il posto o la meschinità,
Chi comanda è pettegolo, si sa.

Se il Diavolo si dà che ti s’ammali,
Visite, amico, visite e dimolte:
Metti sossopra medici, speziali,
Fa’ quelle scale centomila volte;
Piantagli un senapismo, una pecetta,
E bisognando vuota la seggetta.

Se l’omo guarirà, fattene bello:
Se poi vedi che peggiora e che muore,
A caso perso, bacia il chiavistello,
E lascia nelle péste il confessore.
Il morto giace, il vivo si dà pace,
E sempre s’appuntella al più capace.

Colle donne di casa abbi giudizio;
Perché, credilo a me, ci puoi trovare
Tanto una scala quanto un precipizio,
E bisogna saper barcamenare.
Tienle d’accordo, accattane il suffragio;
Ma prima di andar oltre, adagio Biagio.

Se avrà la moglie giovane, rispetto,
E rispetto alle serve e alle figliuole:
Se l’ha vecchia, rimurchiala a braccetto,
Servila, insomma fai quello che vuole:
Oh le vecchie, le vecchie, amico mio,
Portano chi le porta; e lo so io.

Occhio alla servitù venale e scaltra;
Ungi la rota, e tienti sull’avviso
Di non urtarla; una man lava l’altra,
Suol dirsi, e tutte e due lavano il viso:
Nel mondo va giocato a giova giova,
E specialmente se gatta ci cova.

Sempre e poi sempre un pubblico padrone
Ha un servitore più padron di lui,
Che suol fare alla roba del padrone
Come a quella di tutti ha fatto lui;
Se l’amico avrà il suo, con questo poi
Sii pane e cacio, e datevi del voi.

Se mai nasce uno scandalo, un diverbio,
Un tafferuglio in quella casa là,
Acqua in bocca, e rammentati il proverbio:
Molto sa chi non sa, se tacer sa;
A volte, in casa propria, un Consigliere
Pare una bestia, ma non s’ha a sapere.

In quanto a lodi poi, tira pur via;
Incensa per diritto e per traverso;
Loda l’ingegno, loda la mattia,
Loda l’imprese, loda il tempo perso:
Quand’anco non vi sia capo né coda,
Loda, torna a lodare, o poi riloda.

Pesca una dote e ridi del decoro
(Della virtù, si sa, non ne discorro);
Che se piacesse all’Eccellenze loro
D’appiccicarti un canchero, un camorro,
Purché ti sia la pillola dorata,
Beccala e non badare alla facciata.

Briga più che tu puoi: sta sull’intese;
Piglia quel che vien vien, pur di servire:
Ma chiedi, ché la Botta che non chiese,
Non ebbe coda: e poi devi capire,
Che non sorrette dai nostri bisogni
Le loro autorità sarebber sogni.

L’animo d’un ministro, il mio e il tuo,
Son press’a poco d’uno stesso intruglio:
Dunque un nebbione che non fa sul suo,
E si può fare onor del sol di luglio,
Nella sua dappocaggine pomposa,
È quando crede di poter qualcosa.

Non ti sgomenti quel mar di discorsi,
Quel traccheggiar la grazia al caso estremo,
Quel nuvolo di se, di ma, di forsi,
Quel solito vedremo, penseremo…
Eterno gergo, eterna pantomima
Di queste zucche che tu vedi in cima.

Abbi per non saputo e per non visto
Ogni mal garbo, ogni atto d’annojato,
Fingiti grullo come Papa Sisto,
Se ti preme di giungere al papato:
Il dolce pioverà dopo l’amaro,
E l’importuno vincerà l’avaro. –

E Gingillino non intese a sordo
Della volpe fatidica il ricordo.
Andò, si scappellò, s’inginocchiò,
Si strisciò, si fregò, si strofinò;
E soleggiato, vagliato, stacciato,
Abburattato da Erode a Pilato,
Fatta e rifatta la storia medesima,
Ricevuto il battesimo e la cresima
Di vile e di furfante di tre cotte,
Lo presero nel branco, e buona notte.

Qui, non potendosi
Legare al collo
La grazia regia
Col regio bollo,

A capo al letto
In un sacchetto
Se l’inchiodò;

Mattina e sera
Questa preghiera
Ci bestemmiò.

– Io credo nella Zecca onnipotente
E nel figliuolo suo detto Zecchino,
Nella Cambiale, nel Conto corrente,
E nel Soldo uno e trino:
Credo nel Motuproprio e nel Rescritto,
E nella Dinastia che mi tien ritto.

Credo nel Dazio e nell’Imposizione,
Credo nella Gabella e nel Catasto;
Nella docilità del mio groppone,
Nella greppia e nel basto:
E con tanto di core attacco il voto
Sempre al santo del giorno che riscuoto.

Spero così d’andarmene là là,
O su su fino all’ultimo scalino,
Di strappare un cencin di nobiltà,
Di ficcarmi al Casino,
E di morire in Depositeria
Colla croce all’occhiello, e così sia.