MUSEKE IN BOLIVIA-
IL MIO VIAGGIO IN BOLIVIA Mentre cominciavo a scrivere questo articolo con la data dell8 marzo, mi sono resa conto che il mio viaggio in Bolivia è stato caratterizzato dallincontro di donne eroiche, se così posso chiamarle, perché loro sarebbero le prime a dissentire con questo appellativo. In realtà Mayte, Cirila, Martina, Secondina, Teodora sono donne che stanno combattendo ogni giorno, da sole, per garantire una vita dignitosa ai loro figli. Ma andiamo con ordine. Quando ho messo piede per la
prima volta nellhogar di Creamos,
ero ansiosa di conoscere, abbracciare, coccolare un po' i bambini che vociavano
allegri nel patio, ma proprio in quel momento, gli assistenti sociali del
Sedeges stavano portando nellorfanotrofio un neonato di poche ore, trovato
dentro una busta di plastica, ancora sporco di sangue e col cordone ombelicale
legato alla meno peggio. La busta era stata trovata appesa alla maniglia
dell'uscio di un abitazione. Un tocco di campanello e la scoperta di questo
fagottino vivo aveva messo in moto il meccanismo dei soccorsi. Io ero a Cochabamba per verificare lo stato di avanzamento del progetto "Nati per amare", avviato nella primavera del 2016, da Tonino Brunetti per conto di Museke e così, smaltita la fatica dei due giorni di viaggio dallItalia alla Bolivia, sono andata a visitare in compagnia di Cirilo Mejia Cruz le famiglie coinvolte nel piano. Dopo un'ora e mezza di cammino con il pulmino di Creamos che arrancava su per una strada sterrata e accidentata, siamo arrivati a Larati, un villaggio a 3.200 metri di altezza, dove ho potuto "ammirare" i porcellini d'India (cuyes) comprati con i fondi raccolti da Museke. I porcellini erano ormai alla terza nidiata ed erano in compagnia di conigli e gallinelle ovaiole. Gli orticelli dei contadini erano ben ordinati e, nonostante la siccità degli ultimi mesi, facevano bella mostra di sé: cipolle, patate, lupini, scarola, broccoletti, piselli. Tutti ci hanno accolto con cordialità e nella loro lingua, il quechua, ci hanno invitato a entrare nelle loro modeste case, per offrirci quello che avevano: patate lessate con piselli, qualche frutto, un po' di riso e persino una coscetta di cuyes. Era per loro il pranzo del giorno e senza esitazione lo hanno condiviso con noi. Lo stesso
rito si è ripetuto a Sapanani, Kuluio (3.500 metri di altitudine) e a Pajcha
wasa (3.800 metri di altitudine). A me è sembrato di tornare bambina dopo la
guerra, quando era quasi normale, nelle case dei contadini, mangiare con le
mani. Carla Camilli |