Pierluigi Camilli Francesco al Congresso CISL 2017
FRANCESCO DAI SINDACATI "CATTOLICI" PAPA FRANCESCO ALLA CISL.
28 giugno 2017 Ma quante vorte, Ggì, l'avemio scritto e mai, mai nisuno ha fatto caso che ir lavoro nun è più un diritto e cianno messo ormai l'anello ar naso? Oggi, Francesco, er Papa, gliel'ha detto: «Bigna piantalla che lavori er vecchio e ir giovine diventa un bravo inetto, che cor suo padde è solo, drent'un secchio! Dovete dà lavoro ar giovinotto: er vecchio deve annàssene in panchina, dato che nun cià più er barilotto, pe sistemasse er vino gù in cantina! Dovete mette fine a 'sto complotto che v'ariaddrizza solo a voi la schina!»
E tutti quelli in fonno, quelli in piede, hanno fatto un appauso de core; puro quarcuno de quall'antri a sede, ha applaudito un poco a malincore... E lui ha continuato carmo carmo co' la tranquillità de chi è ner giusto, come si stesse a leggeje un sarmo, j'ha detto de calà perterra er busto: giù da lo scranno, via la cravatta scennete a fà er lavoro che dovete; date pensione a chi la vita ha fatta; così er posto p'er giovane ciavrete; nun state a magnà insieme a chi schiatta; tornate có chi fa sempre diete!
Pierluigi Camilli
Luigi Filippetta
SINISTRA ....CHE?
SINISTRA....CHE?
Sinistra? Centrosinistra? Questione d’intendersi, di lingua, più precisamente di semantica.
Perché dopo l’Unità d’Italia ci furono governi di destra e di sinistra. Anzi della cosiddetta sinistra storica. Allora infatti destra e sinistra si riferivano al solo partito liberale, di cui esse erano parte. Perché allora non c’era una parte che potesse rappresentare il popolo, cioè il quarto stato, ma solo la parte che rappresentava la borghesia, in quanto il diritto di voto era subordinato al livello di reddito, cioè al censo. Quindi con la parola sinistra non ci si poteva riferire ai socialisti, che ancora non apparivano all’orizzonte parlamentare. Né ci si poteva riferire agli anarchici di Bakunin, di Enrico Malatesta e del poeta Pietro Gori, che non volevano far parte del sistema rappresentativo parlamentare ma solo di quello rivoluzionario, in quanto miravano al cambiamento della struttura sociale e di quella politica, cioè al cambiamento del sistema. Così oggi, quando ci riferiamo a sinistra, destra, centro,ecc., noi siamo ancora legati alle categorizzazioni del primo e del secondo dopoguerra, quando con la parola sinistra ci si riferiva alle forze democratiche che si ispiravano alla giustizia sociale oltre che alla libertà dei singoli, cioè ai socialisti, ai comunisti, ai repubblicani, agli azionisti, ecc. Ma da alcuni decenni la parola sinistra è stata deviata e indirizzata verso nuove e diverse connotazioni, semanticamente modificata. Anche perché quei partiti non ci sono più o sono diventati irrilevanti. Sicché noi restiamo disorientati dai giochi e dalle piroette di termini linguistici, che non sono attribuibili solo alla lingua, ma anche alla politica, alle ideologie e più spesso alla demagogia. Le conseguenze sono a volte paradossali. Si finisce col votare un partito che si dice di sinistra, ma che, contrariamente alle aspirazioni di giustizia sociale dei votanti, emette provvedimenti che sono chiaramente di matrice liberale e liberista, quindi in favore delle categorie capitalistiche, proprio l’opposto di ciò che s’intendeva per sinistra un paio di decenni fa. Succede, infatti, che siano proprio anche gli elettori della cosiddetta destra a votare in favore dei provvedimenti della cosiddetta sinistra, se non addirittura a contribuire all’elezione dei rappresentanti di sinistra. Apparentemente è un bel pasticcio. Ma solo apparentemente, perché se si tiene conto della questione semantica, la cosa si chiarisce subito, in quanto la parola sinistra oggi si è connotata diversamente dal passato e non indica più le istanze di giustizia sociale per cui si lottava nelle battaglie elettorali e con gli scioperi sindacali degli anni Sessanta e Settanta. Ed è chiaro, perché è mutato il quadro storico politico. Non ci sono più due concezioni ideologico-politiche prevalenti e contrapposte, che nel passato si fronteggiarono con due sistemi, quello comunista orientale dell’URSS e quello capitalista occidentale degli USA. Al termine della guerra fredda ha vinto il sistema capitalista occidentale. E noi, e tutti quelli che fanno parte di quel sistema economicofinanziario, ci siamo finiti dentro. Come ci si può più dire di sinistra, di quella sinistra del nostro passato, se ora si fa parte di un sistema che per sua natura è essenzialmente di destra? ( Infatti la destra c’è, è quella di prima, e si è consolidata). Le parole sono necessarie per esprimere le nostre idee, ma spesso ci giocano dei tiri mancini! E qui la sinistra proprio non ci entra. Che cosa c’entra la sinistra col sistema liberal-liberista, cioè con la competizione e la concorrenza più spietate? La sinistra infatti è per la collaborazione e la cooperazione, per l’equità della distribuzione della ricchezza, per il lavoro ai giovani, e non per l’eccessivo arricchimento dei pochi. Il tormento però resta. Non per coloro che sono legati a rivendicazioni materiali, pur di radicale importanza nel quadro della giustizia sociale e degli aspetti esistenziali, ma per coloro che ispirano la propria vita agli ideali di una sinistra vera. Il tormento resta per coloro che sono legati a quegli ideali per cui molti patirono persecuzioni e torture, per cui non pochi combatterono e si sacrificarono, morendo giovani, impiccati o fucilati, con la speranza di realizzare un mondo più giusto, in cui il lavoro almeno fosse una certezza di vita e non un’aspirazione negata, dentro un mondo iniquo ed egoista, fatto solo di banche e finanza, cioè solo del valore del denaro e non dei valori di umanità. Ed è un tormento che ci fa dire oggi Sinistra, che? se essa è in un sistema che le è estraneo? Luigi Filippetta
LA CHIOSA DI PIERLUIGI Caro Giggi senti cosa ho ripescato tra le mie cose: ER PARTITO “UNITARIO” 26 Aprile 2007 riveduta nel 2012 Ce mancava! Davero ce mancava, un partito de nova concezione! So anni, ch’ognuno l’aspettava er partito de riconcijazzione! Ma ancora non è detto d’esse ar quia, ancora so pochini l’aderenti: mancheno certi de l’avemmaria e l’ecchese compagni renitenti; poi, aspettate ancora quarche tempo, fatece lavorà cor nostro estro, si nun ce brocca quarche contrattempo, coinvolgemo puro er braccio destro e ‘sti partiti nati antetempo, li ridurremo peggio d’un canestro! Perché, compagni! amici! e camerati!, dovete ricordà ‘sta litania (che i nostri novi capi illuminati stanno pé dacce come regalìa): si stamo tutti uniti su lo scranno, nun c’è più opposizzione che perdura, nun ce sarà più er solito tiranno: sarà “La Nova Demodittatura”! Vedrete, poi, ch’er popolo contento nun ciavrà più imbarazzo ‘ne la scerta: lo scettro passerà pé testamento! Centro, Destra, Sinistra e Furbacchioni faranno i turni pé restà in coperta, senza sprecà li sordi p’elezzioni! Perché nun so si ve ne sete accorti che nun c'è più ricambio de partito: ormai se giocano le nostri sorti drento un gruppo solo, assortito! Nun c'è più er partito comunista; ce manca puro, si c'è mai stato, er gruppo radicale socialista; rimane er liberale ritoccato: perché me pare ch'èsse de sinistra vordì che hai spostato er baricentro dall'aria libberale più centrista. Da sempre er libberale amministra, illudenno chi penza d'esse ar centro, alimentanno er farzo socialista! Pierluigi Camilli
CIAO EMILIO
Luigi Filippetta
CHIACCHIERE E FATTI
CHIACCHIERE E FATTI C’ è la globalizzazione. Conseguentemente non ci sono più confini nazionali, c’è la società liquida. Non ci sono più classi sociali da scalare. Non ci sono più ideologie. Già, questa è una visione, una logica, molto comoda. Come dire: ognuno è artefice della sua fortuna, tutti possono diventare ricchi, tutti possono occupare poltrone amministrative e politiche. Tutto dipende dalla volontà, dalla creatività, dalle capacità personali dei singoli, non dal possesso dei mezzi di produzione e delle ricchezze, dalle classi, dai ceti, dalle categorie di appartenenza, come avveniva nel passato. Chiacchiere. Certamente il mondo, il sistema, è cambiato. Non più chi possiede i mezzi di produzione possiede anche il potere, come si diceva fino a qualche tempo fa; ma lo possiede chi possiede il portafoglio e il timone della finanza. E la verità è che ai capitani d’impresa sono succeduti i capitani della finanza. In continuità e senza interruzioni. Ma nelle loro analisi, i mezzi di comunicazione di massa tagliano di netto il presente dal passato. Dicono, cioè, che il mondo del passato si reggeva sulle ideologie e che quello attuale si regge sull’efficienza. Dicono che si sono liquefatte le classi sociali, perché tutti possono essere creativi e produrre ricchezza. Anche se gli operai vengono sostituiti dai robot, gli impiegati vengono sostituiti dai computer. Se non ci sono più le condizioni socioeconomiche del passato, non sono più validi né il pensiero dei teorizzatori delle rivendicazioni sociali né quello dei teorizzatori delle rivendicazioni politiche. Questa è una logica pelosa. Se non altro perché l’uomo senza lavoro perde ogni suo significato e non è più uomo. Lo dice la Bibbia. Lo dice implicitamente la nostra Costituzione. Perché viene cancellata la stessa libertà, che è a fondamento dello Stato democratico, viene meno la stessa autorealizzazione inerente alla natura della persona umana. Perciò quella è una logica con premesse e conclusioni bugiarde. Una logica dispiegata da mezzi di comunicazione di massa e da operatori culturali sulla base di interessi di parte. Come se non ci fosse continuità tra passato e presente. Come se non ci fossero, oggi più di ieri, ricchi e straricchi da una parte, e poveri e poveracci dall’altra. Sempre più pochi e potenti i ricchi e straricchi e sempre più numerosi i poveri e i poveracci: in tutto il mondo, proprio per effetto della globalizzazione, come aveva previsto e spiegato bene Marx oltre un secolo e mezzo fa. E i fatti, non le chiacchiere, ci dicono proprio questo. Che si è strutturato un nuovo sistema, in cui i ricchi sono e saranno sempre più ricchi. E sempre più potenti. Con una stratificazione globale. I fatti ci dicono che le loro ricchezze sono dappertutto e in nessun luogo. Per questo hanno abolito i confini delle nazioni e prodotto la globalizzazione economicofinanziaria. Anzi poco economica e molto finanziaria. Con la delocalizzazione delle grandi risorse finanziarie, delle masse di denaro, si producono esodi e migrazioni, si produce una crisi economica e sociale ormai permanente, giacché i soldi sono impiegati in investimenti redditizi e non in attività produttive. Soprattutto con la delocalizzazione i soldi vengono investiti nei luoghi in cui rendono di più, non nei luoghi in cui essi sono stati prodotti. E proprio per questo i luoghi in cui sono stati prodotti vanno in crisi e si fanno più poveri. E questi sono fatti. Con la loro assuefazione, le masse sempre più teleguidate da invisibili Grandi Fratelli, sempre più sfarinate e liquide, sono incapaci di organizzarsi unitariamente, come invece accadeva nel passato, che era il tempo delle rivendicazioni dei diritti umani e civili, della rivendicazione del lavoro. Ma quel tempo è passato. E’ bastato produrre le macchine elettroniche e i robot che compiono il lavoro al posto dell’uomo. E non c’è più posto per un qualsiasi luddismo. E’ bastato altresì sconfiggere il comunismo dell’URSS. Sicché ora del socialismo e del comunismo sono rimasti solo i nomi. Neanche più gli stracci delle bandiere. E questi sono fatti. Crudeli e laceranti. E non l’ ideologia, ma neanche l’idea di un qualsiasi socialismo pare non ci sia più. E pare che non ci sia più neanche l’aspirazione ad una giustizia sociale. Pare che ci debbano essere solo la competizione fra poveri e lo scarto dei più deboli. Mi pare che si stia davvero realizzando un mondo disumano. Un mondo senza giustizia sociale, senza lavoro, senza solidarietà, senza pietà, senza misericordia. E’ troppo! Luigi Filippetta
ORMAI È UNA PRASSI inserire un mio intervento sul tema.
CHI HA IL POTERE 22 febbraio 2014 Gente mia di Sinistra, gente illusa, che per restare al passo col Successo, ti sei trovata ad essere collusa in una bolgia senza aver Progresso. Gente di Destra, non gioire tanto, che tu continui a perdere il Pudore e il Capitale non ti dà più il tanto e solo propaganda è il tuo Onore! Fin dai tempi antichi è risaputo, senza menare tanto il can per l’aia chi le redini in mano ha sempre avuto, chi ha sempre manovrato la mannaia; il cappuccio al boia l’ha infilato: Banche, Clero e l’Alta Canaglia! 2016 Due anni or sono scrissi questi versi che allora mi sembaron veritieri; oggi i pensieri miei non son diversi, a petto a quello che pensavo ieri. Li ho soltanto un poco equilibrati, chiamando Banche e Clero, Capitale che dà, a Gran Maestri illuminati, l'incipit a poco bene e tanto male! Portano il lavoro in zone franche, assottigliato ormai dal Progresso, sempre più impoverendo genti stanche; illudono di dar loro il Successo, invischiandoli ai debiti di banche e, salvo loro, il mondo va in Regresso. Pierluigi Camilli
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Luigi Filippetta
ANCORA SUL 25 APRILE 1945
UNA SECONDA VERSIONE DE IL 25 APRILE 1945 DI UN NOVANTENNE Noi allora giovani ci nutrivamo d’ideali e di speranze già dall’otto settembre del 1943, con più intensità già dal giugno 1944 quando fummo liberati, ma ci sembrò di vivere in un mondo nuovo e in più sicuri orizzonti col 25 aprile del 1945.
Allora, accanto le une alle altre, vedevamo sventolare le bandiere dei nuovi partiti, le bandiere rosse, la bandiera bianca e le bandiere tricolori. Erano i simboli di nuove idee, di nuove speranze, di nuovi programmi, di nuovi ideali, del partito d’azione, del partito comunista, della democrazia cristiana, del partito socialista, del partito democratico del lavoro, del partito liberale, del partito repubblicano, ecc.
Erano simboli, ideali, programmi che suscitavano tante speranze in noi più giovani, ma anche i primi contrasti tra chi sosteneva la preminenza del principio di libertà con la conservazione della vecchia struttura economica e chi invece sosteneva la preminenza della giustizia sociale, con l’esigenza di riforme profonde per la costruzione di una società più equa.
Io mi entusiasmavo per l’unione dei principi e degli ideali di giustizia e libertà che erano a fondamento del Partito d’Azione, nato appunto dal movimento “Giustizia e Libertà” dei fratelli Rosselli, che l’avevano fondato a Parigi nel 1929 durante il loro l’esilio; il cui assunto era: non può esservi libertà senza giustizia sociale e non può esservi giustizia sociale senza la libertà.
Nel corso di settant’anni, il principio di libertà che era stato nei nostri sogni è stato stravolto. Le multinazionali, favorite dal progresso tecnologico, l’hanno manipolato col liberismo radicale fino a trasformare la libertà in permissivismo, senza più un concreto rispetto per le regole, inducendo la persona a vivere secondo parametri di un individualismo esasperato che ha allentato ogni legame di solidarietà, ha soffocato lo spirito di comunità, ha spinto al consumismo e sollecitato gli uni all’indifferenza per gli altri.
Nel corso di settant’anni il principio di giustizia sociale è stato eroso costantemente e progressivamente fino ad essere ridotto alla sola sua parvenza, nell’inconsistenza di una formula resa vuota perché privata di ogni concretezza. C’è oggi una divisione netta della società: da una parte stanno i grandi possessori di ricchezza finanziaria, dotati di ogni mezzo e di ogni possibilità di manovra sul campo economico e politico, dall’altra c’è la massa che tira a campare con i mezzi più scarsi e senza possibilità di scelte nella sua sfera di vita.
Allora, nel solco della Resistenza e sugli ideali e le speranze del 25 aprile del 1945 furono poggiati ben saldi e luminosi questi primi quattro articoli della Costituzione del 1948: Art. 1 – L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro…. Art. 2 – La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo……. Art. 3 – E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che….impediscono il pieno sviluppo della persona umana….. Art. 4 – La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto.
Dopo settant’anni è inutile chiedersi se questi principi costituzionali siano concretamente applicati nella realtà sociale, giacché si possono vedere giovani che non trovano lavoro, uomini nel pieno delle capacità lavorative che hanno perso il lavoro, uomini finiti in condizioni di emarginazione dalla vita economica e sociale e con lesioni della dignità umana, cioè di quella dignità che è precipuamente tutelata dalla Carta Costituzionale.
E allora è lecito chiedersi se ancora vi sono davvero i partiti di sinistra a difendere lo stato sociale, per cui essi si costituirono nella presa di coscienza dei diritti della persona, nelle lotte e nelle conquiste di quei diritti, che con la Resistenza furono poi sanciti nella nostra Carta Costituzionale. Dove sono finiti quei partiti e quelle bandiere e quegli ideali e quei programmi?
Dopo settant’anni, ora che sono davvero vecchio, il minimo che posso dire è che sono profondamente deluso; deluso per come è stata ridotta la libertà a licenza e deluso per come è stato eroso il senso di giustizia sociale, secondo il principio della competizione che inevitabilmente porta all’egoismo.
Non avrei mai creduto di vivere tanta delusione. E penso che i morti che si sono sacrificati per la realizzazione di quegli ideali siano morti davvero invano. Per pietà di loro non vorrei vedere più corone d’alloro sulle loro tombe.
Non per quelle corone essi infatti lottarono, sostennero torture e sacrificarono la loro vita, ma per la realizzazione dei loro e nostri ideali, per la libertà e per la giustizia sociale delle nuove generazioni, per la tutela dei diritti e della dignità della persona di ogni ceto e di ogni nazione in ogni momento della storia. Luigi Filippetta
GIGGI MI SCUSERÀ SE CI INCLUDO UN MIO PENSIERO...poco poetico RIMPIANTI Quanno che a caccialli riusciste a la fine, bandiere, canti e balli puro ne le cascine! Noantri regazzini godemmo 'sti momenti: finirono i casini e li bombardamenti. Ce rimase e'ricordo de chi morto è pé questo de certo nun me scordo der momento funesto! Cresciuto, poi, ne l'anni ho penzato davvero de scordamme l'affanni, vive in modo sincero. Ma più er tempo passava, più l'onesto pativa: più la gente truffava, più in arto saliva..... Più arivo in vecchiaia e più er peggio commanna: l'onestà sta in ghiacciaia, come fusse la panna; s'esce fora va a male, se sa, pija d'aceto.... una cosa che vale, va tenuta in segreto! E ancora er diritto nun è mai pé la gente: è sortanto p'er dritto che va a ffà 'r diriggente! Me torna a la mente che quann'ero pischello ho creduto realmente in un monno più bello! Sventolà la bandiera era un punto d'onore ma era solo chimera era solo sentore. E defatti oggigiorno è rimasto quell'atto de portà 'na corona, pe nisconne er misfatto!
Pierluigi Camilli
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Luigi Filippetta
2016: IL 25 APRILE DI UN NOVANTENNE
2016: il 25 APRILE DI UN NOVANTENNE
Il 25 aprile 1945 fu l’ultimo atto di una tragedia. Fu anche l’inizio di una speranza. Fu il nostro sogno di libertà e di giustizia sociale. Non solo il sogno della pace. Per noi del Lazio e di Roma quel sogno era però cominciato già nel giugno dell’anno prima, quando i tedeschi e i fascisti si erano dovuti ritirare verso la Linea Gotica, tanto che a settembre io, appena diciottenne, avevo già aperto nel mio paese la sezione del Partito d’Azione, leggevo L’Italia Libera, e seguivo con entusiasmo gli scritti e gli interventi di Ferruccio Parri, Riccardo Bauer, Fernando Schiavetti, Emilio Lussu, Aldo Garosci ed altri ancora. Qualche anno dopo, un compaesano iscritto al Partito d’Azione di Roma fece commissariare la mia sezione per autorizzare l’iscrizione di una trentina di persone che non avevano niente a che vedere con gli ideali azionisti, anzi molti di essi li avevano ancora con quelli fascisti, con lo scopo di sottrarmi la rappresentanza in seno al Comitato locale della Resistenza, per poter eleggere un sindaco di destra. Quella sera io piansi di nascosto. Piansi per il primo tradimento degli ideali della Resistenza, per il primo tradimento verso i partigiani che si erano fatti torturare e trucidare per la libertà di tutti. Ma ne vivemmo subito altri di tradimenti, due ad opera del cosiddetto realismo di Togliatti; e tutti e due ferirono particolarmente noi del Partito d’Azione. Il primo di questi fu la concessione del condono per i delitti commessi dai fascisti, quando ancora ci ferivano i loro misfatti e quando anche noi giovani prendevamo coscienza delle violenze che i fascisti avevano commesso durante tutto il ventennio. Il secondo tradimento fu l’approvazione dell’articolo sette della Costituzione. Esso non solo offendeva il nostro laicismo ma permetteva una pesante ingerenza nella nostra nascente repubblica da parte della Chiesa, che aveva definito il Duce “uomo della provvidenza” e che per un ventennio era stata in connubio col fascismo. Mai o quasi mai nella storia si parla di tradimento. Eppure essa è intessuta di tradimenti. Intendo dire di tradimenti sociali e intellettuali. Non se ne parla perché sempre a subire quei tradimenti sono i popoli in generale, più in particolare sono le classi sociali subalterne o, per dirla papale papale, sono soprattutto i poveri, anche i non agiati, ultimamente anche la classe media. Non occorre per questo riferirsi alla storia di Roma antica. E neanche a tutta la storia successiva. Basterebbe rifarsi alle guerre del Risorgimento e ai plebisciti condotti per censo, con le annessioni determinate ognuna da poche migliaia di ricchi e qualificate ancora oggi come votate dal popolo. Come basterebbe rifarsi alle guerre coloniali e alla prima guerra mondiale, per constatare come sono state condotte apparentemente in nome e per interesse del popolo, ma effettivamente solo a danno del popolo. A me, che ho vissuto gli anni e gli ideali della Resistenza e che le speranze di noi giovani mi parevano certezze fissate quasi in modo ferreo nelle parole e negli articoli della Costituzione, a me allora sarebbe sembrato davvero mostruoso immaginare che nei decenni successivi, quegli stessi ideali, per cui tanti furono torturati e uccisi, sarebbero stati traditi nei fatti e in mille modi. Allora, quel giorno del 25 aprile del 1945, tutte le speranze di noi giovani sventolarono come bandiere. Ora rabbrividisco. Molti nella Resistenza per gli ideali della giustizia e della libertà del popolo furono trucidati e ed erano morti con negli occhi la speranza: la speranza per i figli e per le generazioni future! La pace, il lavoro, la libertà, la giustizia sociale! Invece ancora oggi Papa Francesco deve gridare e condannare l’ideologia dello “scarto”, dello scarto dei più poveri, dello scarto degli emarginati. E io rabbrividisco per un mondo che vedo sempre più disumano. Rabbrividisco per i nostri ideali traditi. Erano spiriti eletti e provenivano dall’esilio e dalla lotta antifascista quelli che sancirono nella Costituzione “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Ed erano i morti delle lotte operaie e contadine lungo due secoli quelli che testimoniavano il diritto al lavoro, il diritto alle otto ore giornaliere di lavoro, alle ferie e alla pensione, il diritto all’istruzione , alla salute. Poveri morti, che hanno buttato la loro vita ancor giovani per una speranza, per un’ideale, oggi morti inutilmente! Hanno un lavoro oggi i nostri giovani? Quante ore lavorano oggi i nostri giovani? Quelli che lavorano stanno con la paura di essere licenziati in ogni momento, in nome dell’iniziativa privata, della competizione, della concorrenza spietata, del mercato. Anche del mercato del lavoro. Perché l’uomo di nuovo è sul mercato. Di nuovo è fatto merce. Col rischio dello “scarto”! 25 aprile 2016. Penso a tutti coloro che sacrificarono la loro vita nelle carceri, nell’esilio, nelle forche, nelle sparatorie repressive, nelle fucilazioni. Inutilmente. Non pensavo di vivere da vecchio queste tremende delusioni. Non pensavo ancora di vivere queste ingiustizie. Non pensavo soprattutto di vivere questa tremenda assenza di ideali! E non pensavo di vivere questa insostenibile indifferenza degli uni per gli altri! Luigi Filippetta EPPURE, CARO GIGGI, NON SIAMO ANDATI A SCUOLA INSIEME, NE' USATO GLI STESSI TESTI (credo)SENZA CONTARE L'ETÀ LEGGI COSA C'ERA TRA I MIEI MANOSCRITTI: 25 APRILE 1985 LIBERAZIONE (scritta il 24 aprile, rivedendo la panchina "di Peppe") Te l'aricordi Pè, que la matina che sò venuto ancora a disturbatte, seduto su la solita panchina mentr'er giornale stavi a gustatte? Sterzasti com'ar solito er cappello dicenno:" Si vinutu a sfogatte!...." Defatti io te chiesi s'era bello che dicheno da sempre 'ste buatte! Domani t'aricordi ch'è successo tant'anni fa? «Che ciau liberato» stai tranquillo nun vojo fa un processo ma vojo solo di' si l'hai notato, che doppo fatto tutto quer progresso, proprio li nostri cianno arifregato! Nun se parlava de democrazia? E li compagni nostri ch'hanno fatto?[1] L'hanno penzata in de 'na sacrestia l'idea de mette in opera 'sto patto? Li morti, i sacrifici, le torture pé noantri risolveno quarcosa, o come sempre so le fregature de chi combatte pé chi s'ariposa? Le guere, me dicesti, se so fatte da sempre, è 'na cosa arisaputa, pe chi ce fa montà le casamatte. Chi va in guera, lo fa all'insaputa! A vorte chi è deposto a commannatte, nun sa perché 'sta cosa è avvenuta! Pierluigi Camilli
[1] Si riferisce alla costituzione che concorda con lo Stato Vaticano di poter interferire su alcune leggi. Malgrado la revisione del 1984 . |
LA MIA PREMESSA AL SEGUENTE ARTICOLO DI GIGGI: Ciò che sto per dire, Giggi lo sa bene come la penso, non lo dico per accattivarmi la simpatia di qualcuno: non è necessario in quanto già ce l'ho. Sono orgoglioso e fiero di essere uno dei pochi che a suo tempo ha potuto ascoltare da Peppe (Giuseppe Filippetta) le sue peripezie e considerazioni della Grande Guerra. Quando lo vedevo seduto ai giardinetti di fronte al mio ex laboratorio, sospendevo il lavoro ed andavo a sedermi accanto a lui, che, continuando a leggere il giornale, spostava il cappello per farmi spazio sulla panchina, senza dire nulla, come se fosse la cosa più naturale del mondo che un giovane gli si sedesse accanto per ascoltarlo (almeno con me così si comportava). Non che fosse un logorroico e tanto meno un vanaglorioso: riconosceva chi lo ascoltava per il gusto di apprendere le cose! E quando ripenso a questo, rivedo l'immagine che mi ero fatta di Maria e di suo padre che parlavano con un ...."terrone" che tale non era più, per loro ed altre e più tragiche "inquadrature"! Credo che chi non abbia avuto modo di parlare con Peppe, non ha mai potuto avere la possibilità di capire la differenza tra l'apparenza e la realtà. Quando poi è uscito il libro, qualcuno ha capito (nemo propheta in patria), mentre qualcun altro ha insinuato che il merito fosse del figlio istruito ( non potendo capire, tra l'altro, la differenza tra istruzione e cultura!). Per me è una gioia parlare di Peppe e quando in alcune mie poesie mi rivolgo a Peppe, non è al Belli che mi rivolgo (come qualcuno ha pensato) ma a Giuseppe (Peppe) Filippetta! Pierluigi Camilli
Luigi Filippetta LE MEMORIE DI MIO PADRE
LE MEMORIE DI MIO PADRE E L’ONORE DI UNA CITAZIONE IN UN SAGGIO DI STORIA
Il libretto “MEMORIE DI UN CONTADINO POETA” di mio padre venne pubblicato a cura della Biblioteca Comunale e per interessamento del sindaco pro tempore Augusto Forti. A presentarlo al pubblico fu proprio il Sindaco Augusto nella sala della Biblioteca, allora situata nell’ex Dopolavoro ed ex cinema. Poco distante da me, mentre il Sindaco presentava il libro ricordando la figura di mio padre, due miei amici dicevano sottovoce che non capivano tanto interesse per memorie di guerra in cui non apparivano vicende ed episodi rilevanti. Intendevano con ciò che non vi apparivano atti di valore e manifestazioni di eroismo. Feci finta di non sentire, né dissi loro mai alcunché al riguardo. In fondo non potevano capire: eravamo negli anni Ottanta, ed invece essi erano ancora fermi alla retorica fascista degli anni Trenta, cioè all’esaltazione di episodi cosiddetti eroici negli atti di guerra. E neanche si chiedevano di quanti riferimenti e di quanti significati possono essere caricate le parole “eroe” ed “eroico”, proprio perché obnubilati da quella ormai antica visione retorica tardo risorgimentale e fascista, che essi avevano vissuto e di cui si erano entusiasmati. Altra è invece la validità delle memorie e della narrazione di mio padre. Una validità che sta al di là dalla narrazione di fatti reali e pur significativi di per se stessi, al di là dalle vicende che lo hanno coinvolto dentro un mondo perverso e tragico. La validità del suo racconto sta nel suo sforzo di capire il senso di quegli accadimenti, di quelle vicende, e nelle sue riflessioni su ciò che davvero si muoveva intorno a lui, lo coinvolgeva tragicamente e lo costringeva a subire una guerra mostruosa. Ed è ciò che ha più interessato diverse persone e che le ha spinte a chiedermi più copie delle sue “Memorie ”per farle conoscere ad altri, tanto che oggi io non ne ho più neanche una copia; neanche una per me. Le ultime cinque copie me le chiesero da Treviso per essere distribuite nelle biblioteche di alcuni comuni di quella provincia. Con mia grande soddisfazione, un libro di recentissima pubblicazione ne sottolinea fortemente la validità per le esperienze e le riflessioni che vi sono esposte e che sono davvero significative in un uomo di letture poetiche, ma pur sempre limitate come possono essere quelle di un contadino autodidatta. Segno che più della cultura in un uomo risalta pur sempre il raziocinio e la capacità di osservazione e quella di riflessione. Infatti l’Autore del libro scrive: "“Giuseppe Filippetta aveva capito!”". Il libro di cui si tratta è un saggio storico pubblicato dalle Edizioni Piemme e intitolato “IL SANGUE DEI TERRONI”; autore ne è Lorenzo Del Boca, saggista e giornalista della Stampa di Torino. E’ un libro che vuole dimostrare il grande contributo di sangue e di morti dato nella prima guerra mondiale dai giovani del centromeridione d’Italia, detti da quelli del Nord “terroni”. Riporto qui di seguito il brano che tratta delle memorie di mio padre.
«Ma la testimonianza più risolutiva della questione è definita nelle “Memorie di un contadino poeta”. L’autore è Giuseppe Filippetta, che era, per l’appunto, un contadino. Nato il 10 febbraio 1890 a Moricone, per guadagnare il pranzo e la cena emigrò in Canada. E rientrò in Italia nel 1914, giusto alla vigilia della dichiarazione di guerra. Venne arruolato nel 2° reggimento bersaglieri, al 17° battaglione, 2° compagnia. Ma nella primavera del 1916 si trovò a Fiera di Primiero, ai confini del bellunese, appena occupata dalle truppe grigio-verdi, dove il clima politico era poco apprezzabile.”Gli abitanti erano terrorizzati perché temevano che gli italiani violentassero le donne e saccheggiassero le case”. In un primo momento Filippetta non condivise quell’atteggiamento. Gli sembrò incomprensibile, prima ancora che immotivato. Poi capì. I soldati erano divorati dalla fame e costretti a bussare alle porte delle famiglie locali per racimolare qualche cosa da mettere nello stomaco. In quella ricerca Giuseppe Filippetta capitò nella stalla di una certa Maria, impegnata a mungere una mucca. Poteva avere un po’ di latte? La ragazza gliene preparò una scodella e quando Filippetta mise mano al borsellino per pagarglielo, rifiutò. Poteva berlo tranquillamente. Glielo regalava. La scena si ripeté per qualche giorno all’ora di cena, ma l’ultima volta il soldato si sentì in dovere di protestare: “Ma allora non vengo più a prendere il tuo latte. Non posso abusare della tua gentilezza. Io voglio pagarlo!” “Non ti preoccupare!” fu la risposta. “Tu puoi venire quando vuoi. Spero solo che qualche famiglia si comporti allo stesso modo con mio marito, che sta soffrendo come te a causa della guerra”. “Feci notare” scrive Filippetta “che gli italiani erano sottoposti all’Austria e volevano essere liberati”. Ma Maria contestò che non era vero niente. “Noi non vogliamo le scuole austriache, perché sentiamo di essere italiani, ma sappiamo che lo Stato italiano vi sfrutta, vi fa pagare molte tasse, anche se economicamente non state bene. Se noi saremo riuniti all’Italia, la nostra sorte sarà uguale alla vostra. Per questo vogliamo restare con l’Austria, che economicamente ci tratta bene, ma vogliamo restarci come italiani, con le nostre scuole e la nostra lingua. Hai capito?” Giuseppe Filippetta aveva capito! “Rimasi sorpreso, meravigliato, confuso. I governi usano la propaganda per gabbare i popoli e spingerli fino alla guerra”.» Fin qui la citazione delle Memorie di mio padre da parte di Del Boca nel suo saggio storico. E a me non resta che esprimere la mia soddisfazione di figlio. Ma anche di rivolgere il mio ringraziamento al sindaco Augusto Forti, che non solo volle l’istituzione della Biblioteca Comunale, ma anche la pubblicazione a cura della stessa del libretto di mio padre. Segno che per primo ne capì la validità di testimonianza di avvenimenti di cui è bene ricordare le tragiche vicende e di cui tuttora si vede la traccia nei nomi scritti sul monumento ai Caduti, fra cui anche quelli di due fratelli di mio padre. Luigi Filippetta |
Luigi Filippetta STORIA E STORIE
STORIA E STORIE Il meritorio lavoro di trascrizione del libro del Massari sulla vita di suor Colomba da parte dell’amico Pierluigi Camilli, pubblicato capitolo dopo capitolo su “Il nuovo Grillo parlante di Moricone”, mi sollecita a qualche osservazione sulla storia e sui cultori di storia che si moltiplicano sempre con più grande facilità, forse per via di un certo modo, secondo me, confuso d’intendere la storia. Proprio per questo mi pare opportuna una considerazione sulla storia spesso intesa come una non-scienza, quindi come concetto ambiguo, in cui si va ad intendere e a confondere la semplice narrazione letteraria di un fatto con la storiografia del fatto stesso. Questa impropria visione della storia intesa come semplice narrazione, come racconto, mi pare un po’ diffusa non da oggi, perché mi è capitato di constatarla anche da componente della giuria dei premi organizzati dalla rivista CONTROVENTO di Pescara, chiusa ormai da un paio di decenni, il cui presidente mi aveva assegnato per diversi anni l’incarico di giudicare e proporre per la premiazione i libri della sezione per la saggistica. In questa sezione trovavo quasi sempre libri che volevano essere di storia: finivo sempre con la proposta di premiare una narrazione letteraria degli eventi storici e mai una storiografia vera e propria, semplicemente perché non ne trovavo alcuna valida, anche se i testi venivano presentati appunto come saggi storici. Mi sovviene di un anno in cui proposi per il premio un saggio del giornalista Vittorio Citterich, autore di un libro davvero bello, che, verso il 1980 mi pare, rievocava il viaggio segreto a Mosca compiuto dal sindaco di Firenze Giorgio La Pira nel 1959: allora c’era papa Giovanni XXXIII che, poco dopo quel viaggio di La Pira, accolse in Vaticano il genero e la figlia di Krusciov ( e fu la prima volta che un comunista russo mise il piede in Vaticano, con grande soddisfazione di Papa Roncalli, che, si può supporre, aveva forse mandato in avanscoperta proprio La Pira)). Un’altra considerazione riguarda l’attenzione ai criteri epistemologici che si dovrebbero seguire anche nelle ricostruzioni storiche degli episodi della storia locale, anche in quelle della nostra comunità, come potrebbe essere quella di un’eventuale ed encomiabile ricostruzione dei fatti dell’ordine monacale fondato da suor Colomba, dato che Pierluigi oggi ci ripresenta la narrazione agiografica del Massari. Una ricostruzione storica, dunque documentata, che dovrebbe vagliare le condizioni e i fattori dello sviluppo e della decadenza di quell’ordine, la cui vita è durata fino agli anni trenta del secolo scorso, e che dovrebbe prendere in esame i vantaggi educativi e assistenziali che le suore offrirono alla popolazione locale, vale a dire i rapporti economici, culturali e religiosi fra le due comunità, quella religiosa delle suore da una parte e quella laica del paese dall’altra. Riconosco che ciò è un compito da storiografi, quindi non semplice. D’altra parte si potrebbe presentarne una narrazione come ipotesi di lavoro, di ricerca, ma mai come insieme di fatti che possono apparire fantasiosi e che possono restare come campati in aria. Ci si potrebbe limitare anche ad un’ umile e quanto mai pregevole raccolta di dati, di documenti, di indicazioni precise per riferimenti obiettivi e documentabili da mettere a disposizione di eventuali studiosi, specialmente attraverso la Biblioteca Comunale! Riconosco che anche una raccolta apparentemente semplice di dati non è un’operazione facile se condotta con criteri di obiettività e in prospettiva di una classificazione rigorosa. Ma è la sola che può garantire risultati preziosi e che potrebbe evitare elucubrazioni fantastiche, ricostruzioni di realtà immaginarie e fondate spesso sul nulla, come nel caso di pretese individuazioni della collocazione dell’antica Regillo o come quelle che riscontravo allora in giuria e che niente o ben poco hanno a che vedere con la storia propriamente detta e con la concretezza di visioni culturalmente valide. Una raccolta umile ed onesta sarebbe davvero di un’utilità straordinaria se posta in collegamento con quanto narrato agiograficamente dal Massari e con quanto commentato da Don Aleandro, cioè con quei lavori cui Pierluigi Camilli oggi dedica lodevolmente le sue fatiche. Ed è questa raccolta di dati e di fatti, a mio parere , che andrebbe incoraggiata come piccola e concreta impresa per una cooperazione preziosa per i giovani in prospettiva dell’arricchimento della storia del nostro paese. Luigi Filippetta |
Luigi Filippetta
VECCHI MODI DI COLTIVAZIONE
VECCHIE E NUOVE TECNICHE DI PRODUZIONE Guardo la televisione e sono sbalordito. Si vedono nuovi modi di coltivare e di produrre. Non so che cosa pensare e immaginare per l’avvenire. Il vecchio lavoro dei campi è solo residuale, sparisce con i vecchi contadini che se ne vanno anno dopo anno. Il nuovo lavoro dei campi è quello di un’agricoltura sempre più tecnologica. Le colture idroponiche sono forse solo avvisaglie di applicazioni scientifiche sempre più avanzate. Le coltivazioni possono addirittura fare a meno delle campagne. L’agricoltura si è industrializzata. Le innovazioni impiegate sono sempre più avanzate, con metodi e strumenti che noi vecchi non possiamo immaginare, perché sono studiati anche in prospettiva aerospaziale, non solo per il terreno dove poggiamo i piedi. A leggerne, ci appaiono così spettacolari che non si può che restare incantati. Già, perché io mi rivedo da ragazzino a guardare una decina di cavalli che, tenuti con lunghe funi da un uomo al centro, giravano sull’aia a pestare con gli zoccoli le fave da trebbiare. E mi rivedo poi più grande, proprio come un’infinità di contadini, faticare un mondo per falciare l’erba e farne fieno, a mietere il grano con u surricchju (falcetto) e le cannelle (pezzi di canna in cui infilare le dita della mano sinistra per proteggerle da tagli per incauti movimenti del surricchju con la destra) e le cupelle ( contenitori in legno a forma di bariletti di due o tre litri per mantenere l’acqua o il vino freschi per quanto possibile, comunque per evitare la fragilità del vetro delle bottiglie e dei fiaschi). Mi rivedo anche a vangare il terreno, poi con la zappa a fare le cofe (piccole buche in cui porre a dimora alcuni semi di fagioli, di ceci o d’altro) poi ancora a zappare le piantine di fagioli e di granturco (zzappa’ i facioli e ‘o randurcu) poi ancora a rincalzare le piantine ormai cresciute (rengasola’ i facioli e ‘o randurcu) e poi ancora, al raccolto, mi rivedo sull’aia improvvisata e provvisoria a battere i fagioli col correggiato (a bbatte i facioli co’ u mazzafrustu) e poi ancora a ventilarli (congialli) per pulirli dai residui dei baccelli secchi che il vento accumulava a bordo dell’aia. Certo, allora si coltivavano campi caratterizzati dalla piccola proprietà contadina, in cui è tuttora difficile introdurre metodi di coltivazione appartenenti a quel processo di industrializzazione adeguato ad estensioni ragguardevoli di terreni, d’altra parte non facilmente applicabile anche perché variamente accidentati. Ripenso anche alle galline che allora facevano parte integrante della nostra economia autarchica su cui si basava la vita familiare. Per la produzione delle uova bisognava aspettare il nuovo tepore primaverile, per poi esporle trionfalmente sulla tavola pasquale. E per i polli (i pollastri) dovevamo aspettare che le galline si facessero chiocce per la cova come in “Valentino” del Pascoli: Poi le Galline chiocciarono, e venne Marzo, e tu, magro contadinello, restasti a mezzo, così con le penne, ma nudi i piedi, come un uccello. Ora invece le galline sono allevate in capannoni illuminati e depongono le uova ogni giorno, anche duecento l’anno; e i pulcini vengono fatti nascere senza le chiocce, con le incubatrici. Noi contadini allora lo vedemmo fare le prime volte nel convento dei Passionisti, ed eravamo meravigliati come davanti ad un’opera di magia. Ne abbiamo viste, però, poi tante altre. Ed ora, quando entro in un supermercato, rimango sempre un po’ dubbioso, sempre un po’ spaesato, come se improvvisamente e contemporaneamente mi trovassi in luoghi diversi e che stanno agli antipodi del mondo. Perché come settanta anni fa, ancora mi aspetto di trovare erbe e frutti di stagione, e invece trovo che nel supermercato le stagioni sono scomparse, perché in ogni giorno dell’anno trovo frutta e verdura di differenti stagioni, di ogni genere e di ogni provenienza: trovo insieme cocomeri, arance, uva e carciofi. Perché nei campi non ci sono più né u mazzafrusto, né u sappo’ (zappa) né a jocca pe cova’ l’ova (la chioccia per covare le uova) ma c’è ovunque l’industria con le nuove tecniche sbalorditive, che sembra facciano miracoli, ma che, secondo me, alterano e manipolano la natura e che a lungo andare forse snaturano e fanno male anche all’uomo. Luigi Filippetta IL MIO CONTRAPPUNTO Sicuramente Gì è un mondo dentro quella che ai nostri tempi era fantascienza! Oggi tutto questo che tu hai scritto, giustamente, è solo l'inizio di un'era che potrà ( e dovrà) fare a meno della terra, visto che diverrà sempre meno quella coltivabile. Non so quanto tempo dovrà passare ma l'essere umano nel tempo avrà sicuramente uno stomaco da uccellino e denti solo estetici, dato che finirà, l'Umanità, col non più masticare per via del cibo chimico che la farà da padrone! Intanto, però, il nostro stomaco ed il fegato sono costretti a fare i così detti salti mortali per digerire ed assimilare e rettificare i veleni che ingurgitiamo con i prodotti che debbono essere "di bella presenza"; specialmente la frutta che dovrà conservarsi il più a lungo possibile e soprattutto non dovrà essere "abitata dai padroni" (bacata) ed avere neanche una scalfitura. Ormai da un pezzo è finito il tempo che si aspettava Natale per spaccare il melone d'inverno conservato in cantina sotto la paglia! Oggi a Natale arrivano in poche ore le cerase dall'altro emisfero! Anche se ti ricordano qualche sudata, spero tu gradisca.......da "Nui Parlemo cucì" Vocabbolariu Murricónese (forma elettronica non pubblicato ancora per motivi tecnici) Pierluigi Camilli |
Lalla Rimacci UN SORRISO STRAPPATO
UN SORRISO STRAPPATO di Lalla Rimacci
Non c'è lezione di filosofia, si mette solo la firma e poi di corsa giù per le scale con una strana, puerile gioia per l'inaspettata ora di vacanza. Nell'atrio c'è un gran baccano di gente che viene, gente che va.
La buriana oggi è addirittura infernale : pare sia l'ultimo giorno di propaganda per le imminenti elezioni del Consiglio di Facoltà. I propagandisti si danno un gran da fare a distribuire volantini che vanno inesorabilmente a finire in terra, potete bene immaginare con quale gioia del bidello che sfodera l'espressione più arcigna del suo repertorio. Un collega mi porge un volantino, ma subito si ferma a mezz'aria dalla mia faccia: deve aver capito che ho altro per la testa, non insiste.
Mi faccio largo tra la calca che si assiepa nell' androne, ma devo fermarmi anch'io: una pioggerella sottile, di primavera, ha fradiciato piazza Esedra. I pochi frettolosi passanti non hanno l'aria di rallegrarsene in contrasto con le ninfe della fontana che si abbandonano, lascive, alle gocce titillanti.
Qualcuno mi chiede se ho 1'ombrello. No! Non ce l'ho ma questo non significa che rimarrò qui ad annoiarmi aspettando che spiova. La fermata dell'autobus non è lontana e quattro passi sotto la pioggia mi aiuteranno a dissipare i pensieri tristi. Non era così che, piccina, riuscivo a far scioglile il magone?
Cosi decisa, spavalda, mi avvio a capo scoperto incurante della pioggia.
Non la sento nemmeno, tanto sono assorta nei miei pensieri, pensieri tristi, pensieri disperati . Una frase che ho letto per caso mi tortura: "....Non è già l'imbiancar del pelo, il primo rabbrividente indizio della vecchiaia, ma il nuovo istinto di raccontare di sé fanciullo ai fanciulli che t'ascoltano....." ; ed io mi sento vecchia, tanto vecchia e stanca per quel continuo desiderio e bisogno di ripensare a me bambina, di parlarne a tutti, quasi a chiedere scusa dell'atteggiamento risoluto, inquieto di oggi, con le irruenze, il coraggio di certe mie birichinate d'allora divenute ormai proverbiali nel parentato.
La pioggia continua a cadere e la fermata non è cosi vicina, ma non importa, anzi mi fa piacere sentire la pioggia lavarmi il viso: pare che gli stessi pensieri ne siano purificati.
E tuttavia non si dissolve l'astio, la diffidenza che ho dentro verso i miei simili e insieme l'insoddisfazione per quello che faccio e penso.
Se almeno avessi il coraggio di ribellarmi apertamente, spavaldamente alle convenzioni, alle formalità che mi opprimono, che mi schiacciano col loro peso, perché non credo in esse! E invece no, la ribellione è sorda, cova dentro, come in questo momento, mi rode l'anima e solo raramente esplode in fiacchi guizzi che dopo mi fanno sentire più vigliacca e spaventosamente sola.
" Io contro tutti"; una specie di ritornello ossessionante che mi ha impedito persino di sorridere, indulgente, al solito "pappagallo" che con aria impertinente mi ha offerto il suo ombrello.
Sono giunta alla fermata. I pochi, seccati, avventori hanno trovato riparo sotto i portici di questa piazza immensa. Un povero diavolo,evidentemente ansioso come me di non lasciarsi sfuggire sotto il naso il bus, è l'unico mio compagno d'attesa. E' piantato lì in mezzo alla strada con un enorme mazzo di iris nella destra e un ridicolo ombrellino di bimba nell'altra mano. Passo oltre diffidente e mi fermo spavalda ad una certa distanza. La pioggia si va facendo più insistente ed io tento di ripararmi reggendo il pacco dei libri sopra la testa.
Me ne sto a lungo cosi, assorta, a fantasticare tentando di decifrare i segni luminosi che i fari delle automobili segnano sul selciato, e cancellano ;e segnano di nuovo. Dopo un tempo infinito, lentamente, mi volgo verso lo sconosciuto più fortunato o forse solo più prudente di me.
Ha una faccia onesta di padre di famiglia. Anche lui mi guarda e mi offre il suo ombrello: «Un pò piccolo» dice scusandosi «ma le coprirà la testa». Solo allora mi accorgo che sono bagnata come un pulcino e sento di essere spaventosamente ridicola, solo questa sensazione di disagio mi persuade ad accettare l'offerta gentile dello sconosciuto.
La strada è lustra, cupa e su di essa come su una inverosimile lavagna, si disegnano, si incrociano, scintillano mille luci, mille fantastiche luci gialle, rosse, bianche. E' un carosello allucinante, travolgente, che mi porta inesorabile fuori dalla realtà. Ma lo sconosciuto mi strappa alle mie fantasie strane: mi sta chiedendo quale autobus aspetto, e di nuovo la diffidenza prende corpo e sono tentata di rispondere seccamente, ma capisco che ormai on avrebbe senso e rispondo un numero, il numero del mio autobus. Il signore si sente in dovere di dirmi: «È passato da poco!» Sono seccata e non solo per il contrattempo. Fortunatamente il mio, diciamo, "coinquilino" deve aver capito e non apre più bocca.
Provvidenziale il mio autobus arriva a liberarmi da quella tortura. Volo verso lo sportello aperto e dalla pedana posso ormai sorridere grata allo sconosciuto. Lui non ricambia il mio sorriso: è la sua piccola, giusta vendetta per la mia diffidenza di prima e non gliene voglio. Ma per un lungo interminabile istante la figura deamicisiana dello sconosciuto con un mazzo di fiori e un ridicolo ombrello di bimba, si sovrappone, in una assurda mescolanza, alle scritte pubblicitarie che volano inghiottite dal moto dell'autobus. E come in un quadre cubista, i suoi occhi buoni di padre di famiglia si sfaldano in un primo piano quasi grottesco e pare vogliano ricordarmi che, in una sera indimenticabile, mi hanno strappato un sorriso.
Lalla Rimacci |
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Luigi Filippetta ALTRI TEMPI con contrappunto di Pierluigi
ALTRI TEMPI Alcuni giorni fa sono andato al bar interno ad un supermercato. Quando ho chiesto il caffè, ho notato che la barista, per qualche giorno assente per l’influenza, aveva gli occhi lucidi, accesi. Le ho chiesto perché e mi ha risposto: Ho di nuovo la febbre. Quando ho chiesto perché fosse tornata al lavoro, le sono uscite le lacrime e non ha risposto. Mi ha fatto male. No, non per l’abolizione dell’articolo diciotto. Non per l’ipocrisia di chi dice che l’articolo diciotto non c’entra, perché sono cambiati i tempi. Già, sono cambiati i tempi. Dicono che ora ci sono altri sistemi e modi di pensare e di agire. Dicono che siano morte le ideologie e sono chiusi anche diversi partiti. Ma si sono dissolti anche tanti ideali, in una civiltà in cui gli unici valori rimasti sono il denaro e la produzione; neanche più il lavoro, che è sempre più deprezzato al confronto delle prestazioni sempre più convenienti delle macchine elettroniche e robotiche. Già, sono cambiati i tempi. Ma mi si sono presentati davanti agli occhi tante immagini, quasi come fotogrammi di un film. Ed ho pensato ai tanti che hanno lottato per il bene di tutti. Per un futuro migliore. Perché tanti si sono fatti martiri per il bene delle nuove generazioni, per conquistare tanti diritti con le lotte, con le loro vite spezzate, con la loro morte in gioventù e la rovina delle loro famiglie. Oggi è possibile dire che lo abbiano fatto inutilmente? Non è da escluderlo per oggi. Infatti molti concepiscono la pensione, l’assistenza sanitaria, il diritto alla salute, al lavoro, all’istruzione non come conquiste con le lotte dei lavoratori e del popolo nel passato, ma come elargizioni piovute dal cielo o spontaneamente avvenute, come le ciliegie nate dai rami fioriti del ciliegio. Perciò io ho negli occhi come fotogrammi, tante memorie e immagini dei fatti del passato e di quanti si sono sacrificati per la conquista di quei diritti. Ho davanti, nella mente, le lotte degli anarchici nell’Ottocento con le sofferenze in carcere, ad esempio, del poeta Pietro Gori, autore di Addio Lugano bella e della Ballata per Caserio, le lotte e le sovvenzioni per sostenere ed affermare l’ideale anarchico di Carlo Cafiero, la Canzone di Nicola e Van di Ennio Morricone per il film su Sacco e Vanzetti. Ho davanti agli occhi le lotte dei socialisti: le centinaia di morti cannoneggiati nel 1898 in Piazza del Duomo a Milano dall’esercito di Bava Beccaris, per la protesta contro la tassa sul pane. Ho davanti agli occhi i sette ammazzati a Roccacorga per le lotte contadine nella settimana rossa del 1913. Ho davanti agli occhi l’olio di ricino e le galere fasciste. E il ricordo della Resistenza. Il ricordo dell’operaio e partigiano comunista Edmondo Riva di Monterotondo. E il ricordo della strage di Portella della Ginestra nel 1947 per le rivendicazioni contadine. E le lotte per la riforma agraria. E quelle per i diritti civili. E il ricordo degli emigranti italiani costretti a cercare un lavoro umiliante all’estero, ovunque ce ne fosse; come oggi vengono altri dall’Africa. Ho davanti agli occhi i principi fondamentali della nostra Costituzione, per cui abbiamo fatto la Resistenza. E li vedo in gran parte disattesi. Già negli anni ’70, scrivendo su Controvento una recensione di un libro, scrissi che il destino dello stato nazionale si avviava alla disgregazione ad opera delle multinazionali, che, per loro natura, non avrebbero potuto riconoscere né i confini nazionali né alcuna legiferazione autenticamente democratica e popolare. Ora aggiungo che non solo esse hanno già reso insignificanti i confini nazionali con la globalizzazione, ma hanno anche dissolto i partiti di sinistra, e reso inefficienti le organizzazioni sindacali. Con le loro organizzazioni indebolite, fiaccate, quali potranno essere le condizioni dei lavoratori? Quali le condizioni del popolo? Sono cambiati i tempi. E’ vero. Sono cambiati i sistemi e i rapporti economici e sociali. Perché è stata prodotta una diversa visione culturale. E siamo senza più ideali, questa è la nostra iattura! Ed aggiungo che si tende a una società a dismisura. E con papa Francesco dico che si persegue “una società dello scarto”: ogni uomo non funzionale al sistema viene “scartato” secondo l’effetto darwinistico del liberismo, che ha sostituito alla lotta di classe il principio della competizione individualistica. Ed ancora. Il mondo dimentica. Anzi è indifferente verso il passato e verso gli ideali. E trovo che senza gli ideali, il mondo è anche indifferente verso il futuro! E’ senza speranza. E questo mi fa davvero pena. Per i giovani. Luigi Filippetta Il mio contrappunto Bello veramente e come al solito puntuale! Il fatto gli è, come dice il toscano, che qualche anno fa ho scritto (in verità "rimato") qualcosa che mi permetto di accodare al tuo articolo, essendo penso collimante: NOANTRI E LA STORIA Febbraio 2009 Finito er tempo dei grandi Romani, e grazzie a l'’impicci bizzantini, semo passati in mano all’Ottomani pé via de li seguaci Wulfalini.[1] Tutti ‘sti fatti ce portorno in casa ‘na mischia de sordati e de ladroni ch’ormai la ggente s’era persuasa ch’ereno de Ddio le punizioni. Unni, Vichinghi, Vandali coi Goti, gente Ostrigota e d‘ogn'antra spece, la mejo feccia de li Visigoti! Potevamo fermalli cô 'na "prece"? Allora li potenti de 'la fede, così come li prìncipi e baroni hanno riunito: i primi, a chi ce crede e li poracci l'antri, da padroni. E secoli su secoli de stragi, saccheggi, stupri e deportazzioni: er popolo ha pagato cô suffragi, e s'è abbozzato, in più, umijazzioni. 'Gni tanto è escita quarche testa calla cô quarche utopia libertaria; ce n'è voluto pé veninne a galla, arzà la testa e sentì 'mpô d'aria! E antri sacrifici, antri morti pé li diritti der lavoratore. Avutili però se semo accorti che 'ste conquiste nun ce danno onore, perché, la maggior parte de la ggente, s'è affiancata ar capitalista, ar solito nun cià capito gnente e s'è fermata a metà conquista!
[1] Il monaco germanico Wulfila [vedi Bibbia Gotica ( o di Ulfila) è una versione della Bibbia realizzata nel IV secolo da Ulfila (o Wulfila), 311-388] I genitori di Ulfila erano romani appartenenti ad una comunità ridotta in cattività dai Goti sul finire del III secolo. |
RICORDANDO E RIPENSANDO di Luigi Filippetta Nel mio precedente articolo sul capitalismo e i nuovi schiavi avevo fatto riferimento ad un articolo del filologo e storico Luciano Canfora. A commento del mio articolo poi è intervenuto Pierluigi con un suo bel sonetto scritto l'anno scorso per l'incontro televisivo di Corrado Augias con Luciano Canfora. Non tanto la lettura dell’articolo di Canfora quanto la lettura di ciò che ha scritto Pierluigi mi ha spinto, non so con precisione il perché, a ricordarmi come ho sviluppato il mio interesse per la storia della filosofia e per la filosofia stessa: proprio a cominciare da Canfora! Nella mia preparazione per le magistrali avevo studiato storia della filosofia sul manuale di Lamanna, della corrente del pensiero idealistico del Gentile: non riuscivo a chiarirmi temi e problemi; certamente per mio difetto di preparazione. Negli anni Settanta lessi il “Sommario di storia della filosofia” di Luciano Canfora, edito da Laterza e che riassume i quattordici volumi della “Storia della filosofia” di Guido De Ruggero, seguace del pensiero idealistico del Croce. Leggevo allora il “Sommario”, mettendolo anche a confronto con la “Storia della filosofia” di Bertrand Russell, in modo da capire meglio temi e problemi che i filosofi si ponevano col passare del tempo, cioè nelle varie epoche. Leggevo il “Sommario” e immaginavo Canfora già avanti con gli anni, se non vecchio. Invece, dopo tanto tempo ho scoperto che era molto più giovane di me! Ma io ero andato con le pecore, e allora non immaginavo che si potessero scrivere libri così importanti anche da giovanissimi. Ancora adesso però, anche dopo aver studiato direttamente sui tanti volumi del De Ruggero e su altri di altri autori, mi è rimasta dentro l’idea di un Canfora dotato di un sapere vasto e profondo, che mi fa sentire piccolo piccolo! Ci sono questi uomini di grande cultura, parlo solo dei vivi di oggi, come Canfora, Rodotà, Zagrebelsky, De Mauro, De Masi, ecc., che non solo trasmettono grande cultura ai giovani, ma anche ci orientano a saper conoscere, cogliere, affrontare e risolvere meglio e con più chiarezza i problemi del nostro tempo. A fronte di questi benemeriti che illustrano la cultura italiana nel mondo, si rimane allibiti quando ci sono politici che affermano che “la cultura non si mangia” oppure dicono “questi professoroni è meglio che stiano zitti”. Che classe politica e dirigente ci siamo meritati? Poi ci meravigliamo se la nostra economia è in crisi, come è in crisi l’immagine del nostro paese! Luigi Filippetta
Caro Giggi, visto che ti ispiro queste belle note, torno ancora con il mio CONTRAPPUNTO di Pierluigi Camilli Pensavo, mentre leggevo il tuo articoletto, che il disappunto che si prova nel constatare la decadenza culturale odierna, forse è esagerato! Sai, credo non tutti riescono a tenere il ritmo di chi, fin da quando era scolaro, ha dovuto affrontare una vita, non dico di stenti visto che né tu ne io abbiamo mai patito la fame!, ma di sacrificio. Soprattutto la tua generazione (non per ricordarti che sei dieci anni avanti che è quasi una generazione) che per studiare ha dovuto rubare il tempo e noi (la mia semigenerazione) già andando in bicicletta a otto chilometri, abbiamo potuto studiare a scuola; quando i professori avevano più tempo di quelli odierni. Oggi, e domani sarà sempre peggio, la cultura è stata molto diluita così si filtra meglio. Siamo ritornati, quasi, a riservare la cultura a pochi; in parte a chi può finanziariamente ed in parte a chi sa come fare e se non si ha la passione trasmessa da chi ti ha insegnato…. Sbaglio? E solo quelli come te, possono poter leggere il professor Canfora, del quale sono a malappena riuscito a leggere “la prima marcia su Roma” che, devo dire, per l’argomento che affronta (forse meglio gli argomenti) è molto scorrevole e brillante. Un paio di libri, prima di questo, li ho abbandonati: Infatti ciò a dimostrazione della mia mezza falsa cultura. Forse perché nel mio ramo, abbiamo seguito più le capriole con Thevenin, Norton e Pacinotti dell’Olivieri e Ravelli che con Platone e Aristotele. Figurarsi che già il Manzoni, che era nel programma di studio, ci faceva sbarellare! “Professò! Ma che Manzoni faceva gli impianti? Ma a che serve?” e il professor Colapietro – Vedrete, vedrete che vi servirà!- In effetti, quando mi sono trovato, poi nel tempo, di fronte a certi P.I. che non solo non sapevano cosa fosse il congiuntivo, ma sbagliavano proprio i termini, ho capito cosa volesse dire il “Manzoni” nelle scuole tecniche! Sicuramente Luciano Canfora è uno dei maggiori conoscitori della storia Romana: è come se il bisnonno del nonno gli avesse raccontato di Cesare Augusto(anche se all’epoca erano più greci, laggiù, che romani!). Ma oggi, mi pare che questi problemi non ne hanno più: 1. perché le aule sono stracolme per il ridotto numero degli insegnanti 2. i programmi non si riescono a portare a termine anche se meno approfonditi per via che l’approfondimento è rimesso alla Rete 3. quando questo non fosse vero, se piove bisogna fare “azione d salvaguardia all’asciutto”. Questo è quello che mi risulta da parte di chi fa l’insegnante e da quello che vedo dai miei nipoti( elementari, medie, università). E qui chiudo, perché mio malgrado, mi sto accorgendo che ti sto fornendo materiale per un romanzo. Grazie per l’apporto che dai alla mia pagina. Pierluigi
PASSERI di Luigi Filippetta Odiavamo i passeri. Li odiavo anche io da ragazzo, anche se noi di casa non seminavamo il grano, perché avevamo le pecore. Odiavamo i passeri, tanto da chiamarli comunemente “passaracci” e non passeri, perché si arrampicavano sulle spighe di grano e ne mangiavano i chicchi. Il grano era prezioso per tutte le famiglie, era il segno dell’abbondanza. Con la farina le mamme facevano il pane, ogni otto giorni; pagnotte profumate di forno, di fuoco di frasche di leccio e di quercia, il primo giorno; poi via via il pane si faceva sempre meno odoroso e sempre più duro; poi solo buono per le zuppe; zuppe con ogni ben di Dio, con le erbe di campo, con i legumi, soprattutto con i fagioli. Con la farina e l’acqua le mamme impastavano le pizze, che poi cuocevano sotto la brace o fritte, quando finiva il pane prima degli otto giorni; e quasi ogni giorno ci facevano “sagnozzi” di acqua e farina, da cuocere nell’acqua, conditi con un battuto o con due pomodori e una piantina di sedano; ed anche maccheroni fatti con le uova, quando ce n’erano a primavera nei giorni di festa. Il grano era prezioso e se ne raccoglieva sempre poco, allora. Perciò i passeri erano odiati, e a maggio si mettevano in mezzo ai campi di grano gli spaventapasseri, fatti di paglia e stracci, per tenerli lontani. Inutilmente. E allora si appostava in ogni campo di grano una donna o un ragazzo a percuotere barattoli metallici vuoti, per impaurirli e scacciarli col frastuono: a volte sembrava che ci fosse un concerto di ferrame con tutto quel battere di lamiere di latta su tutte le colline del paese. L’odio per i passeri tornava utile per alcuni a giugno, quando si potevano acchiappare i loro piccoli nei nidi, quando erano cresciuti e già pronti per il volo, per cucinarli nel sugo per i maccheroni all’uovo nei giorni di festa. Ma tornava anche più utile in inverno, quando essi erano infreddoliti e sempre in cerca di qualche granello da beccare, per cui svolavano qua e là come disperati. Allora si mettevano tagliole fatte di fili d’acciaio a molla, col grilletto su cui s’infilava un pezzetto di pane o anche un chicco di granturco. Si nascondeva la tagliola con terra fine, perché i passeri sono furbi, e cautamente, prima di beccare il pezzetto di pane, ci giravano intorno cercando di scoprirne l’inganno. Molto più furba però era la cutrettola, che chiamavamo “codazinzula” per il fatto che muove continuamente la coda, perché prima di beccare l’esca, si girava e la smuoveva con la coda, facendo scattare a vuoto la tagliola e volandosene via, spaventata ma salva. Erano soprattutto i ragazzi a mettere le tagliole per prendere i passeri, anche se questa caccia era proibita. Apparentemente lo facevano quasi per gioco, ma poi li portavano alle mamme, che li spiumavano e ci facevano il sugo per i maccheroni. Anche io, pure se noi non avevamo bisogno di uccelletti per il sugo, perché in famiglia, oltre alle pecore avevamo anche una piccola macelleria, anche io mettevo le tagliole sulla piazza per prendere passeri, davanti casa, d’inverno, quando faceva freddo; poi mi mettevo di guardia a spiare dai vetri della finestra, con l’ansia di vedere i passeri alla ricerca di cibo intorno alla tagliola. E ci andavo di corsa, quando qualche passero beccava l’esca e faceva scattare la tagliola, che lo prendeva per il collo e quello si dibatteva con le ali e garriva di dolore. Allora io mi precipitavo, col cuore in gola quasi come il passero morente, lo liberavo dai ferretti che lo stringevano e lo sbattevo di colpo sulla terra per finirlo; poi come un cacciatore primitivo me ne tornavo a casa col trionfo della preda in mano. E’ passato il tempo ed è cambiato il mondo. Anche io sono cambiato; sono diventato vecchio e nel nostro mondo i passeri sono diventati pochi. Pochi come le rondini e come gli altri uccelli, che un tempo arricchivano i nostri cieli di voli e di canti. E per noi ci sono allevamenti di ogni genere di animali, e ci sono i supermercati in cui tutti, oggi, possono comprare carne di ogni genere. Ora chi mette più le tagliole e chi va più a caccia di nidi per prendere gli uccelli, come si faceva al tempo di noi ragazzi? Andiamo loro in soccorso, invece. E ne abbiamo pena, vedendoli cosi fragili e pochi, che svolano qua e là fra le nostre case e fra gli alberi dei pochi giardini e delle piazze. Giacché il grano da noi non si semina più, ma si mettono veleni per far crescere più belle le ciliegie e ammazzare le mosche olearie. E si finisce col togliere cibo vitale alle rondini, ai passeri, ai fringuelli e ai cardellini. A me e a mia moglie è capitato di vederli sul nostro balcone in cerca di cibo nei giorni più freddi d’inverno; e ne abbiamo avuto pietà a vederli così minuti e arruffati nelle piume controvento. Gli abbiamo messo granelli d’orzo perlato e di farro, assieme a biscotti sbriciolati. Sono venuti con grandissima diffidenza e cautela; hanno mangiato i biscotti, ma non hanno toccato neanche un chicco di farro e di orzo. Li ho osservati ed ho visto che non hanno più il becco robusto come quello dei loro ascendenti granivori, ma sottile e debole come quello degli altri uccelli insettivori. Abbiamo continuato a mettere sul balcone briciole di biscotti e anche di fette biscottate. Ed essi hanno continuato a mangiarne, sempre diffidenti e con grande cautela, ma sempre più numerosi. Li abbiamo osservati: davano due beccate, poi guardavano rapidamente di qua e di là e in alto, poi davano altre due beccate e di nuovo guardavano cautamente in alto e di qua e di là, poi ancora rubavano un pezzetto e svolavano via, sempre con la paura di essere ghermiti da noi uomini o dai rapaci. Finché si sono trovati più a loro agio, più tranquilli se non più sicuri, e non hanno più avuta tanto paura di noi, anche se sono rimasti assai guardinghi. A primavera li abbiamo visti allegri; hanno cominciato a farsi diversi segnali, apprendo le ali e vibrandole velocissime da fermi. Poi ci hanno sorpresi: uno beccava le briciole e le offriva ad un altro che apriva a sua volta il becco per ingoiarle; poi anche quest’altro beccava briciole e le offriva ad altri sopravvenuti. Da brividi per noi, allibiti: vergognosi di noi stessi. Le idee correvano e si accavallano nella mia mente, sorpresa e stravolta per così tanto affetto che legava tra loro quegli animaletti. Mi rivedevo con la tagliola e rivedevo i nidi depredati. Mi tornava in mente l’insegnamento secondo cui tutto è stato creato in funzione dell’uomo, dell’uomo che ha un anima mentre gli animali sono senz’anima; per cui non solo possiamo mangiarli, ma anche considerarli senza sentimenti, fatti di solo istinto, senza affetti: animali, solo animali, come diciamo noi ai nostri simili quando si comportano malvagiamente. E invece i veri animali siamo noi. Il vero animale ero stato anche io, nella mia incoscienza nel tendere la tagliola, quando prendevo i passeri e li schioppavo per terra. Ed ora mi vengono i brividi a pensarci. Luigi Filippetta |
CONTRAPPUNTO AI “PASSARACCI” DI GIGGI di Pirluigi. Nell’articolo di Giggi sui passeri, uno della mia generazione ed anche della seguente, ci si ritrova dentro col cuore e con l’anima! E devo dire che mi ha risvegliato dei ricordi, oserei dire affascinanti. E mi ha fatto ripensare il gioco a “ccriccà e tajole”; anche se, tutto sommato, non era un gioco vero e proprio, visto che era, appunto, dettato dalla necessità. Necessità di difendersi dalle invasioni e quella di rimediare della carne a costo zero, praticamente. Mi ha fatto ritornare ragazzino, quando, la maggior parte delle volte, ritornavo a casa con le gambe graffiate per salire sulle piante a “cchiappà i passaraccitti” nei nidi e, almeno a me, sentirmi rimproverare da Maria Irene (mia sorella più grande) perché riportavo “sse pòre bestiole che non t’hau fattu gnende!”, anche perché a lei faceva impressione spennarli e prepararli per la cottura. Mentre mamma, che proveniva da famiglia contadina, mi difendeva e le diceva: “ Se tu issi a monnà ô ranu, e quanno va a mete ce ne retrovassi la metà, ô vidirristi qundu so brave bestiole!” e aggiungeva “ pela sse anime de Dio, e ìnate!” e quell’animededio era tutto un poema! Mi ricordo che (e non vorrei che mi accadesse come a Bigazzi col fatto dei gatti) avevamo fatto una squadra che ogni tre o quattro giorni andavamo, all’imbrunire, nei cipressi del Camposanto, col sacco e a volte riuscivamo a prendere anche i passaracci oltre ai passaraccitti. Una sera, Aduilio il Camposantaro, accortosi delle nostre scorribande, si misa “ a reattu” e ci fece prendere uno bello spavento, non solo per la sua comparsa improvvisa come fosse un fantasma ( e chi ha conosciuto Aduilio Ferraresi sa di cosa fosse capace di iscenare) ma perché ci prese i nomi e ci fece credere che ci avrebbe fatto chiamare dai carabinieri. Poi, invece, la cosa morì così ma noi cambiammo zona di caccia. E la sera, ci radunavamo una sera a casa di Tito, una sera nella cantina di Bruno, qualche volta coinvolgevamo la madre di qualcuno e così, agevolavamo “la campagna del grano!”. Sia chiaro, subito dopo la guerra era più sentita la necessità dell’uso della “caccia al nido” per mangiare un po’ di carne che farlo quasi per sfizio come, poi, negli anni ‘50/60 facevamo noi. A parte questo, c’era rimasta l’usanza di andare a prendere gli uccellini nei nidi per “ avvezzarli”, cioè insegnargli a stare con noi, senza paura. Allora, poi, non c’era tutta questa fobia per la “cacatella” d’uccellino in giro per casa! Mi ricordo che a Santunicola, su di un “arbiro” (l’acero tutore delle viti), ci aveva fotto il nido, per parecchi anni, una famiglia di passeri completamente bianchi. Li prendevamo (ne covavano solo tre) e li portavamo a casa e diventavano, fino all’autunno, parte della famiglia e dalla gabbia aperta sul balcone, entravano ed uscivano come volevano e a volte “pranzavano” con noi, svolazzando per casa poi, verso settembre prendevano il volo definitivamente e sparivano. E questo per tre anni, poi sono scomparsi. Ripenso con una certa nostalgia qui passeri bianchi, dagli occhi e le zampette rossi, di una eleganza unica! E da stupidi, a non fare nemmeno una fotografia; e sì che, anche se scarsa, io avevo una 4,5/6 da 6 pose! E mi fermo qui che ne avrei da raccontare sugli esperimenti di addestramento sui passeri: dal traino di carrettini alla compatibilità gatto-passerotto. Quello che oggi mi lascia perplesso e vedere gente che si arrabbia e scandalizza per una fatta di piccione sulla macchina ma non si cura quella fatta dal suo cane vicino la macchina o chi s’infila il guanto (quando lo fa) per raccoglierla! Pierluigi Camilli |
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