COME FACÈMMO2-
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COME FACÈMMO2
da RADIO MANZO
Cari Radiomanzoascoltatori buona sera, passiamo alla seconda parte di come facevamo… . Come abbiamo detto nella prima parte, c’era più serenità tra le persone perché c’era meno corsa all’arrivismo, sempre tranne qualche eccezione.
Chi andava in campagna si portava la “sparretta”; normalmente era il tascapane con gli ingredienti base fissi: olio, sale, aceto e si aggiungeva pane in funzione a quanti ne usufruivano; le varianti erano pomodori, d’estate, mele autunno-inverno e fino a che c’erano i prodotti del maiale ( ma sempre dopo Natale visto che i maiali si uccidevano sempre dopo Santostefano). Quelli più esigenti e che se lo potevano permettere, si sbizzarrivano con un pezzetto di baccalà o una saraga o qualche sarda sotto sale. Un giorno che stavo a Santunicola (noi di casa non andavamo in campagna se non raramente e poco organizzati, facendo mio padre altro lavoro), Franciscu “magnalòva” odorava la salsiccia e mozzicava il pane, alla mia domanda del perché, mi rispose che domani non ne aveva un’altra e se la doveva “companiare”! Però, mentre lavoravano, si sentivano i canti e a volte, addirittura da un terreno all’altro ci uscivano fuori delle stornellate a dispetto. A ripensarci oggi, sembra quasi che ce lo siamo sognato! Ripeto ancora che non c’era la corsa “al realizzo” a discapito di altri (nella maggioranza della gente) e mi ritorna in mente questo mio sonetto:
Un sugnu che tale remane!
(30 Marzo 2005)
Vurria resbejamme 'nna mmatina
senza tené u penzeru deo dafane
potemme dissetà có ‘mpo de brina
come quanno monellu era papane
Ma no reì arreto cou Progréssu
mancu reì ai tempi ‘e Checchennina
vedésse ‘nnì telefuni l’istessu
senza che l’aria sa de varecchina
Quanno che te settavi ‘nnu murittu
coe cianchi pinnuluni vérzu Roma
e ar Soratte je vidij u pilittu!
Ma ddó sta scrittu che ppe ffà u Progréssu,
perché voju pijasse Roma e toma,
u munnu non pô èsse più de gessu?
....Un giorno venne a bottega un cliente a comprare un’aringa dicendo a mamma:« Cicì, damme ‘n’arenga co’ l’ova…qualla dell’ara sittimana toccatu a cocesela che s’era seccata tróppu…ségnala che st’ara sittimana ce pacanu e facemo i cundi!» Quando uscì chiesi a mamma che discorsi facesse…ma era pazzo? E mamma mi disse che appendevano l’aringa per aria, passavano con le fette di pane, ce le stropicciavano sopra e ci mettevano l’olio, giù in campagna! Non c’era molto da scialare, però erano sereni!
Ah! Per chi non lo sapesse, le aringhe c’erano di due tipi: quelle con le uova e quelle col latte ed erroneamente molti pensavano che quelle con il latte fossero femmine, invece era esattamente al contrario: erano quello con le uova che erano le femmine.
I trattori, prima degli anni settanta a Moricone erano pochi e la maggioranza dei contadini usava la zappa e la vanga; si poteva anche dedurre chi andasse a lavorare il proprio terreno o chi andasse a giornata: normalmente chi andava al proprio terreno,non portava la vanga in spalla, poiché, in linea di massima, lasciava gli attrezzi nella capanna, in campagna.
La capanna!
Non so quanti giovani hanno avuto modo di vedere l’interno di una capanna, dato che da svariati decenni le capanne sono state sostituite dai casali e casaletti. Uno di questi giorni racconterò loro la capanna, soprattutto quella dei pastori.
Quando pioveva, ovviamente, non si andava “fore”, “ ‘a fore" come si dice a Palombara, cioè in campagna; come avviene anche oggi, il ritrovo erano i bar solamente che non c’erano i bar di oggi: c’erano due osterie: Cutugnìttu (il nonno dell’attuale Sceriffo) e Cacó (dove era il Gomito ora chiuso); Ugenio Temperó che era una via di mezzo tra il bar e la trattoria (poi diventato Bar, ora chiuso), il Dopolavoro Enal (solo per i soci) ora Centro Anziani; la trattoria di Pasqualino Proietti (oggi Lupa Romana). Di Tanto in tanto in qualche cantina, soprattutto a Moricone Vecchio, si apriva qualche “Fraschetta”.
La Fraschetta era segnalata, appunto da una frasca , o di ulivo o di leccio o altra pianta sempreverde, appesa davanti alla porta della cantina dove il contadino metteva in vendita il proprio vino.
Per noi ragazzi era più difficile passare il tempo non potendo uscire in strada a giocare. Mi ricordo che con mio fratello spesso facevamo le gare di corsa con ….le gocce! Sì, avete capito bene, con le gocce! Mi spiego meglio: davanti la finestra della cucina, sopra la bottega a Moricone Vecchio, passavano i fili della corrente che all’angolo, poi, andavano ad incrociarsi su una mensola con altri che verso destra salivano verso la Chiesa Vecchia in via dell’Orologio, mentre a sinistra continuavano per via del Forno, verso l’Archiricci. I fili erano tre e quando pioveva, si vedevano benissimo le gocce che si formavano fino ad ingrossarsi e cadere, dopo quattro o cinque metri di percorso. Ognuno sceglieva il filo e chi conteggiava più gocce che raggiungessero il “traguardo” e cioè la mensola, vinceva! Chi s’accontenta gode! Ho anche una poesia che scrissi per descrivere la scena.
Buon ascolto e buonanotte.
'A corza de 'e colate
1972
Quanno erèmmo monélli e che piovea,
io e fratimu, 'nna finestra fissi,
quande corze, cô l'acqua che correa
facèmmo. Sopre i fili stisi missi,
a dua a dua, i fili dea luce,
tra un muru e 'n'aru rétti dae tazzette [1]
partea 'na colatèlla, 'na póce[2]...
Quanno se 'ngrossava, certe corzette!...
"U filu verzu nui m'u pijo io!"
«Prundi?...Partènza!...Vaóh che littorina[3]»
" Non vale, jace![4]" « Tu varda! Porco zio!
ssa cche scardèlla![5]» "Vó venge e vó 'mbattà!
'O vidi che ssì peggio de Pierina?"
«Hó vindu io, non serve sfoghettà!"
[1] Isolatori di vetro o ceramica per ancorare i fili elettrici, in rame nudo. [2] Póce( ó chiusa) = pulce
[3] Il nome che si dava al direttissimo [4] Jace= sei squalificato, espulso dal gioco
[5] Scardellà = barare o non stare ai patti; uno che scardella è un baro o uno poco serio Grazie per l’ascolto e a risentirci alla prossima. Buona notte a tutti. |