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'‘A SCANZIA DE PIERLUIGI
I GIOCHI CHE FACEVAMOI GIÓCHI CHE FACÈMMO 6

'NDUVINA CHE È (INDOVINALA) E
SARDA LA QUAJA  E  A PPÈ


  ‘NDUVINA CHE È  a SARDA LA QUAJA E ed a PPÈ

Un altro gioco, dove si usava il termine “Morè” e “non zo più fij mei” era “’NDUVINA CHE È ”.
Spieghiamo ancora una volta cos’è  una MAZZAROCCA.
LA MAZZAROCCA è costituita da un fazzoletto, abbastanza grande (meglio ancora se fosse una “sparra”) piegato trasversalmente da formare due triangoli sovrapposti; si prende l’apice (il pizzo) del triangolo superiore e si arrotola verso la base lasciando così scoperto il triangolo posteriore; arrivati alla base, si prendono gli estremi riunendoli in un nodo. Questa è la mazzarocca. Difatti, gli estremi rimasi liberi diventeranno i manici di una specie di mazza flessibile
A questo gioco però le mazzarocche non venivano prolungate con la cintola.
Al gioco, potevano partecipare tutti, bambine e bambini da 5 a ,,, 99 anni e minimo due giocatori. 
Si determinava chi fosse il “Mastro” che doveva tenere banco; qua non usiamo il termine “sta sotto”, perché chi veniva sorteggiato dirigeva e non “ pagava pegno”, cioè non prendeva mazzaroccate, in quanto era il supervisore.
Ci si metteva in cerchio attorno al Mastro/a che teneva la mazzarocca da parte del manico, mentre l’interrogato la teneva dalla parte del nodo. Il Mastro dava un indicazione di quello che si doveva indovinare e l’interrogato poteva fare tre domande. Se indovinava, diventava Mastro, altrimenti lasciava il nodo ed il Mastro dava il colpo di avvio, seguito da quanti potevano arrivare a colpire il malcapitato o la malcapitata a meno ché il Mastro non pronunciasse morè, morè; però poteva ripensarci e dire “non zo più fij mei” , al che si riprendeva a picchiare.
Normalmente le domande venivano riferite alle piante e si cominciava dicendo: “Conoscio ‘na pianda jarda, jarda, jiarda che quanno piove mencu te ce repari…” , oppure “ conoscio ‘na pianta che va strisciuni strisciuni e fa certi frutti curti curti…”.  E lì, le domande più strane e le risposte più spiritose…. Ci si divertiva con poco. Come quando si giocava a “Sarda la quaja”.
Per questo gioco, non serviva altro che un tratto di terreno libero e percorribile.
I giocatori, si mettevano disposti in gruppo ed uno si distanziava di qualche metro e si metteva curvo, tenendosi con le mani le gambe, con un fianco rivolto verso il gruppo, in modo ch la schiena resti quasi orizzontale; allora, partiva un secondo giocatore che, prendendo la rincorsa, poggiava le mani sulla schiena del giocatore curvo e lo sltava, fermandosi a poco più in la prendendo la posizione dell’altro; partiva il terzo e faceva la stessa pantomima e così via fino all’ultimo; si raddrizzava il primo e partiva per saltare anche lui e la cosa continuava finché non ci si stancava. 
A “ppè”, era un gioco statico e poco intrigante. Il nome è onomatopeico, visto che se soffiando e pronunciando appunto ppè, l’aria esce con più forza. Normalmente si giocava a due a due ma potevano essere anche cinque o sei giocatori.
Per giocare a “ppè” occorrevano bottoni o (più recentemente) figurine, qualcuno che aveva più fiato, lo faceva con i tappi delle gassose.
Il gioco consisteva nel posare un bottone sul tavolo o su qualcosa di rialzato che soffiandoci sotto, bisognava farlo rigirare. Chi riusciva nell’impresa si impossessava del bottone. 

GIOCHEMO A PPÈ

-Io me levo da stu tavulinu,
che non tengo più un bottone pe ffà a ppè-
«Lèvatelu da sotto u cindurinu
se tu non te u bottó, dda retta amme.»

-Tu ne tè tandi e prestamene tre,
che quanno véngio t’i redajo tutti-
«Chiedili ‘a ‘Mberto: dei buttuni è Re!»
- E quissu me da sembre quilli rutti…-

«È viro ‘Mbè quello che dice Agustu?»
“ Ma tu sta a crede a ssù buciardella? 
Mi redaésse, ce rerrembio un fustu!

Ma quissu quilli boni i dà ‘a sorella
che ogni tundu se reggiusta un bustu
perché cóu sartu ce fa cummunèlla!”


Grazie per l’ascolto e a risentirci alla prossima. Buona notte a tutti.

I sassi dea Vallicella 27 giugno 2015[1] Che aria bona e bella ci sta ‘nnà Vallicella! Quantu ce sse sta bene: bbeatu chi ce vène. Penza tu chi c’è natu