Come facevamo8-

Come facevamo8


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COME FACÈMMO  ottava parte

  Buona sera a tutti 

 come facevamo…  ottava parte 


Non abbiamo ancora parlato della raccolta delle olive. 
Sono passati un paio di decenni ed il mondo si è rivoluzionato anche nel campo agricolo; sicuramente non paragonabile all’evoluzione nel campo elettronico ed informatico, ma travolgente comunque. Sembra siano passati secoli che si andava a raccogliere le olive con le sole mani, senza l’ausilio di mezzi meccanici ed addirittura elettrici! Quando ero ragazzo io, e fino a quando sono tornato dal militare, non c’era nessun mezzo all’infuori delle dita o la bacchetta. Per chi non conosce le nostre usanze, è bene ricordare che da noi non si è mai adottata la bacchiatura delle olive se non in caso estremo e cioè quando era impossibile usare la scala. Sarà bene spiegare cos’è la bacchiatura? Ma si, è sempre utile ricordare termini che nel tempo rimangono solo a significare la trasformazione del termine stesso; bacchiare significa battere sui rami col bacchio, bastone; (dal latino baculum=bastone) da cui abbacchiare, essere abbattuto, avvilito. E per la cronaca, abbacchio, l’agnello appena slattato, deriva proprio dal fatto che l‘agnellino veniva tenuto separato e legato ad un bastone (ad baculum [ad regge l’accusativo]) da cui abbacchio. Scusate, ma è più forte di me quando parlo del latino! Insomma, far cadere le drupe (“i vaghi”) per mezzo di una pertica. 
Torniamo indietro, siamo arrivati al terreno dove c’è l’oliva da cogliere e per prima cosa, si passava sotto le piante a raccogliere le olive prima di mettere le scale e stendere i teli (‘e mmandarèlle), poi si saliva e cominciando dalla cima, si “spiluccava ‘a liva” , strisciando la mano e contemporaneamente si agiva con le dita come a suonare uno strumento a corde, diciamo che si sgranava il frutto. Finita la “scalata”, si ritiravano i teli restringendo le drupe cadute in un unico telo e si passava in altra posizione finché non si fosse compiuto il giro della pianta, poi si insaccava; se era tanta l’uliva raccolta, si insaccava man mano ne sorgesse l’esigenza. E via alla prossima pianta. Se già il descrivere questa operazione richiede del tempo, immaginarsi per eseguire! Insomma, una persona a cogliere e due donne al seguito per “le mandarèlle” e raccogliere le drupe fuoriuscite dai teli, , al giorno potevano riportare, quando erano bravi, circa un quintale e mezzo di ulive e le piante dovevano essere piene.
Poi, cominciarono le “macchinette” a sostituire le dita: prima come piccoli rastrelli, poi quelle con i rulli e sempre più perfezionate finché non arrivarono quelle ad aria compressa applicabili ai trattori. 
Le macchinette a rulli, mi ricordo che fu Peppe Briglia, il primo a farne una e ne prese il brevetto; era un fabbro romano trasferitosi a Moricone durante la guerra (aveva prelevato la bottega di “Milio deu Ferraru” [Emilio Ferraresi]) che molti anni dopo si trasferì a Montelibretti )
Con l’avvento del trattore, poi, era anche più comodo riportare i sacchi “a bocca” (cioè riempiti fino a poterlo appena appena chiudere, legandolo con uno spago), cosa che col somaro o il cavallo era molto difficoltoso oltre che faticoso. Oggi, tre persone con i rastrelli pneumatici telescopici, e senza dover usare la scala, riescono a raccogliere fino a venticinque quintali al giorno. Perfino noi, non del mestiere e sprovveduti, con lo scuotitore elettrico (a batteria) riusciamo a riportare quattro o cinque quintali al giorno. Però, bisogna anche dire che le olive a terra, non si raccolgono più, al limite qualche drupa che fuoriesce durante la raccolta.
Certamente, a quelli della mia età e più anziani, ci sembra tutto fuori dal normale ed è finita la poesia dell’evento, visto che oggi non c’è più dialogo, ma solo fretta! Mi ricordo quando partivano gruppi di uomini e donne per andare a raccogliere le ulive e lungo la strada parlavano e scherzavano tra loro e mentre lavoravano, intonavano canti popolari o si sfottevano con stornelli a dispetto; alla sera, ritornando a casa, malgrado la stanchezza, cantavano canzoni corali che ancora sento nel fondo della memoria: “il cacciatore del bosco”, “ entrai nel convento”, “ tutti mi dicono bionda”, “vedo spuntar tra gli alberi” ed altre ancora. Credo di dovere molto a questo periodo per la mia poesia. Oggi, se non c’è il trattore a “cantare” c’è il compressore ed in assenza di essi, c’è l’auricolare per la radio nel taschino; non senti più nessuno che da un terreno all’altro si chiamano; nessuno fa più la frugale colazione in “coro” col confinante: ognuno per se (e non c’è più Dio per tutti)! Il progresso del cosiddetto benessere ci porta all’isolamento più di quanto non lo siamo già normalmente.
A tal proposito, mi ritorna in mente una poesia di Giggi Filippetta. Voi direte chi è: una sera di queste ne parleremo. Ecco la poesia

NOVEMBRE A MORICONE

Mai un novembre fu più luminoso
di questo, che risplende di solari
giornate e nelle lunghe notti palpita
d’innumeri astri dentro un cielo d’indaco.

Mai un autunno fu più mite e bello
di questo, che sui campi una sottile
 brina spolvera all’alba e nella sera
brucia nubi di fuoco,
arde i monti di rosso;
sui declivi leggeri
anche i cerasi bruciano le foglie
in un trepido e dolce smarrimento.
Nell’aria che scolora
svapora lieve il mondo
vibra l’infinito
nel cuore che trasale
al senso dell’esistere.

Mai un novembre come questo
fu splendido d’azzurro,
or che nell’aria fremono gli storni
in brevi e rapide nuvole d’ali,
e sui colli assolati, all’agitarsi
argenteo degli ulivi si di sgranano
frutti maturi, canzoni solenni
e docili motteggi si diffondono
dei coglitori.
E l’animo si discioglie 
pacato al giorno laborioso, dentro
allo scorrere quieto della vita.

Raccontatemi, vi prego, come oggi si potrebbero scrivere versi così!
Questi versi, oltre all’immagine di un autunno in terra sabina, che potrebbe ancora essere visto se non andassimo sempre di fretta, l’ultima parte non può più esistere. E meno male!, direte voi. Peggio per voi!, risponderei io.
E visto che abbiamo parlato di ulivi, come non farvi ascoltare la mia poesia in murriconese? Eccola:

‘A LIVA.

Febbraio 1987)

Appena potata 
è tutta schilitrita:
tutta spojata,
tutta rinzicchita!
Se ‘a liva è vecchia,
pare che te’ ‘a panza,
pare che è canerchia ,
da ‘na certa distanza.
Ma lassa che a ninfa  je rescorre
lappe i ramitti e drento a che branca,
allora ‘a senti quaci de discorre
cou ventu che a contorce e che ‘a sfianca.
E ‘a tecchia  che a l’oju già precorre,
a Maggiu ‘a terra fa diventà bianca!
I rami renfronnati,
recropu ‘e macagne;
i vachi già ‘ngrossati,
te fau penzà ‘e montagne
de liva cota e pronta
pe’ esse macenata, 
e pure a ‘nna conta,
sennó va sprecata.
E quanno l’oju casca trento ‘a latta ,
te pare da vedé l’oro che fila!
‘Na  cósa che co’ gnente se baratta!
Eppó, se senti che ‘nganna te ppila ,
allora ‘a gradasione è quell’adatta
pe’ esse ‘i primi de ‘na grossa pila!
                              


Grazie per l’ascolto e a risentirci alla prossima. Buona notte a tutti.